L'intervista a Gabriele De Nuzzo, dalle giovanili a Udine alla nuova esperienza in Slovenia

Ex LGI, ha partecipato nel 2014 all'edizione del nostro Almanacco. Insieme a lui abbiamo approfondito la tematica relativa ai ragazzi che preferiscono l'estero all'Italia.
18.07.2024 13:45 di  Stefano Rossoni   vedi letture
L'intervista a Gabriele De Nuzzo, dalle giovanili a Udine alla nuova esperienza in Slovenia

Durante l'anno, La Giovane Italia ha deciso di dare grande spazio e importanza sui propri canali a tutti quei ragazzi che, per un motivo o per l'altro, hanno scelto coraggiosamente di intraprendere una nuova avventura all'estero. Nell'ultimo periodo però, vista la partenza di alcuni profili (ad esempio Della Rovere, ufficiale al Bayern Monaco), il tema sui giovani che abbandonano l'Italia è diventato ormai di interesse nazionale. Ci sembrava interessante scoprire, in prima persona, le reali motivazioni che spingono i nostri giovani a preferire altri campionati.

Lo abbiamo chiesto a Gabriele De Nuzzo, calciatore classe '99, cresciuto nelle giovanili dell'Udinese e attualmente di proprietà del Tabor Sezana, club che milita nel campionato sloveno. Un profilo "non scontato" per LGI, considerato che De Nuzzo fu selezionato nel 2014 tra i migliori profili della propria categoria sul nostro Almanacco. Torniamo a parlare, dunque, con un "vecchio amico", ripercorrendo le sue tappe a livello giovanile e soffermandoci sui temi citati nelle righe precedenti.

Buongiorno Gabriele e grazie per aver accettato la nostra intervista. Da pochi giorni è ufficiale il rinnovo con il Tabor Sezana, quali sono le tue prime sensazioni?

“Davvero molto contento. Sono arrivato a gennaio scorso, è stato un inizio difficile perchè partivamo da una posizione di classifica veramente disastrosa, poi attraverso il ripescaggio siamo riusciti a salvarci. Mi sono trovato benissimo sia con i compagni che, in generale, con la società: ho trovato persone disponibili e soprattutto di parola, non un fattore scontato nel mondo del calcio. Il Tabor Sezana ha sempre manifestato la volontà di voler proseguire questo progetto insieme: sono felice di come siano andate le cose”.

Riavvolgiamo il nastro di ben 10 anni, ritornando al 2014. In quel periodo sei stato inserito nell’Almanacco de La Giovane Italia. Militavi nell’Udinese e nella tua scheda tecnica ti raccontavamo come “Un bomber nato, che cerca di liberarsi nel giro di pochi secondi e pochi metri per andare in gol, sua caratteristica principale”. Come hai ricevuto la notizia della presenza sull’Almanacco e inoltre: come sei passato dal ruolo di prima punta a giocare, negli anni successivi, come quinto di centrocampo?

“È stata la prima volta che ho sentito parlare della vostra realtà, durante gli anni vi ho seguito con grande piacere tra interviste, focus e altri contenuti. È vero: da giovane ricoprivo il ruolo di attaccante o seconda punta, poi la svolta è arrivata all’ultimo anno di Primavera a Udine. In quel periodo faticavo a trovare spazio, nelle sedute di allenamento mancava spesso il ruolo di quinto e quindi venivo spesso utilizzato lì nelle esercitazioni di squadra. Il mio procuratore dell’epoca mi propose al Como ‘spacciandomi’ per esterno di centrocampo, senza che io avessi mai fatto quel ruolo in vita mia. A partire dalla Serie D ho fatto così il quinto di sinistra: con le mie doti di corsa, oltre a un buon piede, ho imparato a giocare in una posizione completamente diversa”.

Sempre nel 2014 collezioni anche le prime presenze in Azzurro. Proprio nella tua scheda, ci avevi confidato che giocare Italia-Brasile al Torneo delle Nazioni rappresentava per te l’emozione più grande: è ancora così? Ci racconti delle tue esperienze con l’Italia?

“Lo affermo ancora a distanza di tempo: è stato uno dei momenti più felici della mia carriera calcistica. Italia-Brasile, seppur a livello giovanile, rimane sempre e comunque una sfida affascinante. Fu la mia seconda partita in azzurro, dopo quella disputata contro la Romania: quelle presenze rappresentano, ancora oggi, una bellissima emozione per me. In quella Nazionale c’erano tanti giocatori che poi si sono affermati ad alto livello: cito ad esempio Bastoni, Donnarumma e Scamacca, che hanno partecipato anche all’ultimo Europeo”.

A proposito di questi tre ex compagni di Nazionale: hai ancora qualche legame con loro? Si intuiva, già a quel tempo, che avrebbero potuto raggiungere grandi traguardi?

“Non ho più legami con loro. Ai tempi del Como, però, ho fatto un’amichevole contro l’Inter e mi sono fermato a chiacchierare con Bastoni, parlando un po’ anche del passato. Donnarumma notavi già a quel tempo che era diverso da tutti gli altri: c’era un’alta considerazione sul suo conto. Scamacca sembrava giocasse contro ragazzini di 10 anni in meno, spiccava dal punto di vista fisico ma anche tecnico. Bastoni era il capitano di quella Nazionale, si notava meno rispetto agli altri due, a parte i capelli ricci… (ride, ndr) però emergeva per un aspetto importante: la personalità, dote che non gli è mai mancata fin da giovanissimo”.

Andiamo avanti nel tempo e spostiamoci al 2018, quando fai il salto in Serie D con il Como: quanto è stato difficile passare da una Primavera a una categoria di quel tipo a soli 18 anni?

“Per un giovane, passare da Primavera a Serie D è un colpo notevole. La Serie D è un campionato complicato, molto caotico e fisico: difficile per un ragazzo, a quell’età, fare un salto del genere. Credo però, al tempo stesso, che sia il passo necessario per tanti giovani: invece che rimanere un altro anno in Primavera dovrebbero militare nel “calcio dei grandi”, anche in una categoria inferiore a cui si aspira. In Serie D ti confronti con calciatori di 30/35 anni che giocano per mantenere una famiglia: è diverso rispetto a sfidare i tuoi coetanei. E poi c’è la pressione del risultato, un fattore che nelle giovanili non esiste. A Como, ad esempio, tutti si aspettavano di vincere. È una cosa che ti forma sia a livello calcistico che dal punto di vista umano”.

A tal proposito, nelle scorse settimane è nato il Milan Futuro: i rossoneri sono il terzo club che aderisce al progetto delle seconde squadre. Pensi che questo sia il modo corretto per permettere ai ragazzi un salto più semplice verso il professionismo? Oppure sarebbe meglio un’opzione in prestito, con l’opportunità di cambiare città e mettersi alla prova in un contesto diverso?

“Secondo me cambiare città e lasciare (anche momentaneamente) la propria società, che per molti rappresenta una vera “bolla”, è un fattore positivo: il calcio, in altre piazze, viene visto in maniera totalmente diversa e ciò, per un giovane, diventa formativo. Poi in queste categorie, il salto è ancora più difficile: la Serie A è un altro sport rispetto a tutte le altre, mentre B e C rimangono campionati di buon livello. Hai citato il Milan Futuro e ti prendo come esempio Camarda. C’è tanta pressione su questo ragazzo, uno dei pochi italiani che a parer mio può essere considerato un crack: andare a giocare in Serie C a 16 anni non sarà semplice per lui. Dovrà scendere in campo contro tifoserie molto calde, inoltre c’è un pubblico che si attende tanto da lui. Visti i numeri impressionanti nelle giovanili, tutti penseranno che possa replicare quei gol anche in C: ma non è un’operazione scontata… tutt’altro!”.

Procediamo con la tua carriera, questa volta soffermandoci su un episodio negativo. A fine 2021 rimedi un infortunio grave, che ti costringe a rimanere fuori dal campo per diversi mesi. Quali sono state le tue sensazioni dopo l’accaduto? Quale pensi sia il miglior consiglio da dare a ragazzi in questi momenti?

“Gli infortuni fanno parte di questo sport, ognuno deve cercare di conviverci. È normale rimanerci male nei primi giorni: molti vedono l’infortunio come un treno perso per la propria carriera, ma non è così. Bisogna trovare la forza dentro di sé, oltre chiaramente a circondarsi di brave persone, che ti incentivano a tornare presto in campo. È necessario continuare a lavorare sull’obiettivo, vedendo l’infortunio come un “intoppo” ma non come qualcosa che possa condizionare, definitivamente, il proprio cammino”.

Dopo questa parentesi negativa, veniamo alla tua ultima esperienza: il Tabor Sezana. Com’è andata la prima avventura all’estero? Che differenze hai notato con l’Italia?

“Faccio una premessa. La scorsa estate mi era scaduto il contratto con la Fermana. Nonostante avessi disputato, a parer mio, una discreta stagione in Serie C, con il passare dei mesi non ho trovato l’accordo con alcuna squadra. Ho continuato ad allenarmi, ma sono arrivato a ottobre a non avere un contratto. In quel periodo, una squadra di Serie D mi aveva confidato che ci sarebbero stati degli sviluppi per gennaio, nel frattempo ho disputato qualche partita in Eccellenza in un club vicino a casa mia, ritornando a giocare da attaccante, proprio come feci all’Udinese. La società di Serie D che aveva mostrato interesse sparisce, fortunatamente mi ha contattato il Tabor Sezana. È stata una manna dal cielo, perchè questa chiamata è arrivata nel momento più difficile della mia carriera. Qui in Slovenia mi sono trovato subito benissimo, è un mondo diverso dall’Italia e che, sinceramente, apprezzo di più. Anche l’ambiente è totalmente differente: nella scorsa stagione eravamo in fondo alla classifica, ma il supporto non è mai mancato. C’è sempre stato ottimismo, a differenza dell’Italia dove si avverte spesso pessimismo”.

Che livello paragoneresti la Serie B slovena con le categorie presenti in Italia? Com’è messa la Slovenia a livello di strutture?

“È impossibile fare un paragone tra Slovenia e Italia. Nella Serie B slovena puoi trovare il giocatore che fatica magari in Eccellenza, ma allo stesso trovi qualcuno che potrebbe fare molto bene in Serie C. Dal punto di vista tattico, la preparazione è quasi nulla: ritmo e intensità sono presenti, però mancano proprio determinate basi. Qui si lavora tanto sulla tecnica, è l’aspetto su cui si lavora maggiormente. A livello di strutture, qualche settimana fa ho avuto modo di allenarmi in un club di medio-bassa classifica nella Serie A slovena e te lo posso assicurare: non ho mai visto un centro sportivo di quel livello. Lì è possibile fare il paragone con l’Italia: le squadre più celebri del nostro campionato, come Maribor, Celje e Ljubljana, possono competere con le realtà italiane, le altre invece sono a livello di una buona Serie C. Anche se, va detto, centri sportivi come questo fai fatica a rivederli in Italia. Quattro campi di allenamento, palestra, manutenzione quotidiana del terreno, cucina, spogliatoi bellissimi: cose che in Italia, in Serie C, sono quasi impensabili. Su 60 squadre, probabilmente in 5 possono permettersi tutto ciò”.

Infine, il principale motivo di questa nostra chiacchierata. Nell’ultimo periodo, sempre più ragazzi cercano fortune all’estero: lo abbiamo visto, ad esempio, col passaggio di Della Rovere al Bayern Monaco. Quali possono essere, secondo te, i principali pensieri che spingono giocatori, nati e cresciuti calcisticamente in Italia, ad andarsene?

“Parto col dire che, vedere un italiano andare a giocare all’estero, non va considerato come un fattore negativo: non c’è nulla di male se, in altri Paesi, un club mostra il proprio interesse. In Italia sappiamo bene com’è la situazione: dare fiducia al giovane è più difficile. È anche vero però che, se un giocatore ha veramente talento, a parer mio il modo per giocare lo trova. Ed è forse l’aspetto più evidente in questi anni: da noi manca il talento, quello vero. Poi è chiaro: ci vorrebbe più coraggio, da parte delle Prime Squadre, di credere nei propri giovani. Un ruolo chiave lo gioca la mentalità italiana: tutti vogliono ottenere risultati, anche la squadra di medio-bassa classifica gioca per conquistare punti preziosi e dunque non offre tempo, né modo, ai giovani di poter sbagliare. Perchè questa è la grande verità: il giovane deve commettere errori per poter crescere e non può farlo rimanendo in panchina. In Italia purtroppo è così: dopo i primi errori in partita, ti becchi i fischi di tutto pubblico. La nostra cultura è diversa rispetto a tanti altri Paesi”.