Cresciuto nel Genoa a base di "pane e pallone": l'intervista a Daniel Fossati

Il Carpi ha conquistato la sua prima vittoria in trasferta del 2025 (l'ultima risaliva al 14 dicembre 2024, con il 3-1 contro il Sestri Levante), dimostrando grande solidità tattica e mentale contro il Pontedera. A sbloccare il risultato è stato Daniel Fossati, autore del suo terzo gol stagionale e il primo con la maglia del Carpi dopo il suo arrivo dal Gubbio.
Partiamo dalla stagione in corso. Hai fatto il tuo primo gol contro il Pontedera, il terzo stagionale ma il primo con il Carpi.
“Sono arrivato a Carpi l'ultimo giorno di mercato; inoltre stavo rientrando da un infortunio, quindi la situazione era piuttosto complicata. Ero rimasto fermo per quasi un mese e mezzo e, anche dal punto di vista fisico, ero un po' indietro rispetto agli altri. Per fortuna, però, ho trovato un gruppo che mi ha messo subito nelle condizioni di lavorare bene. È stato emozionante perché, quando si raggiunge subito un risultato, anche se piccolo - perché un gol, nell'arco di una stagione, può contare poco - rappresenta comunque la prova che stiamo lavorando bene, che mi sono integrato nella squadra. Questo per me è un aspetto molto positivo e tutt'altro che scontato".
Vorrei fare un passo indietro. Nella tua famiglia il calcio è sempre stato il pane quotidiano: tuo fratello ha sempre giocato a calcio e tuo padre è un allenatore. Cresci dunque a "pane e pallone".
“Sì, assolutamente. Ho iniziato a giocare a calcio a soli tre anni, anche se la leva iniziale nell’Arenzano, il paese in cui sono cresciuto, era prevista a partire dai cinque anni. Mio fratello, essendo più grande di due anni, aveva già iniziato a giocare, e mio padre, per tenermi occupato, mi ha fatto cominciare molto presto. Inoltre, mio padre ha sempre allenato da quando ne ho memoria. A tavola si parlava sempre di calcio, si guardavano le partite… Insomma, il calcio l'ho sempre respirato fin da bambino".
Dicevi della tua prima squadra, l’Arenzano. Immagino fosse la classica squadra del paese, del quartiere, dove hai iniziato a tirare i primi calci. Che periodo è stato per te?
“Sicuramente un periodo bellissimo, perché è il momento in cui ti diverti di più. Crescendo, se il calcio diventa il tuo lavoro, inizi a viverlo in un modo diverso, ma da bambino lo vivi semplicemente come un gioco. Mi divertivo tantissimo: ricordo le partitelle, gli allenamenti, che in realtà erano quasi sempre partite, con i vari mundialito. In quegli anni il calcio non si giocava solo al campo, ma anche al campetto. All'Arenzano c’era il famoso 'campetto blu', un campo in cemento che purtroppo adesso è stato demolito. Lì si ritrovavano tutti i ragazzini del paese, giocavamo sempre. Era un campo a cinque, ma per noi sembrava enorme, perché eravamo piccoli. È un ricordo davvero speciale, perché è lì che ho gettato le basi della mia passione per il calcio. Arenzano è la squadra del mio paese natale. Non ha mai raggiunto grandi categorie, ma quando mio padre la allenava è arrivata fino alla Serie D. In quel periodo ero ancora molto piccolo, ma lo ricordo bene: è stato un momento davvero bello, mi divertivo moltissimo".
Da giovane passi subito al Genoa, se non sbaglio a soli 9 anni. Era un salto importante, perché passavi da una realtà come l'Arenzano, con tutto il rispetto, a un club professionistico. Come hai vissuto questo cambiamento? Hai trovato comunque un ambiente familiare?
“Ti dirò, meno di quanto si possa pensare. Ho sentito subito la differenza, perché giocare e allenarsi in una squadra come il Genoa richiede disciplina e un certo atteggiamento, sia in campo che fuori. Devi comportarti in maniera adeguata, perché rappresenti la società. Fin da piccoli ti insegnano l'importanza della disciplina e dell'educazione, soprattutto in un'età in cui si ha ancora la testa di chi vuole fare tutto. Lì, invece, impari a gestire il tuo comportamento e a vivere il calcio con maggiore serietà, soprattutto se sogni di farne un lavoro".
Durante la tua esperienza al Genoa, cosa hai imparato al di là dell’aspetto calcistico? C’è qualcosa che ti ha lasciato un ricordo particolare?
“Ho iniziato a 8 anni e sono tuttora di proprietà del Genoa, quindi è un ambiente che conosco molto bene. Sicuramente mi ha aiutato a crescere, sia come giocatore che come persona. Come dicevo prima, mi ha insegnato disciplina e responsabilità, sia in campo che fuori. Più di tutto, però, mi ha fatto capire che il calcio non si gioca solo sul rettangolo verde: la maggior parte del lavoro sta fuori, e quello che fai nella vita quotidiana si riflette poi nei risultati in partita".
A proposito di risultati, con l'Under 18 del Genoa hai vinto il campionato. Immagino sia stata un’esperienza speciale. Che annata è stata per te?
“È stata un'annata particolare, sarò sincero. All'inizio della stagione avevo fatto il ritiro con la Primavera sotto leva e avevo altre aspettative: speravo di restare in quel gruppo, ma per scelte tecniche non è andata così. Nessun problema, fa parte del gioco e non sta a me giudicare certe decisioni. È stata una stagione diversa anche perché avevamo un allenatore, mister Ruotolo, che ci faceva vivere il calcio in maniera completamente nuova. È stato forse l’allenatore con cui abbiamo avuto più libertà di esprimerci, di giocare senza pressioni, ed è proprio questa mentalità che, secondo me, ci ha portato a vincere lo Scudetto. Una vittoria del tutto inaspettata: se non ricordo male, nell’ultimo turno prima dei playoff rischiavamo addirittura di essere eliminati. Poi, nelle finali, abbiamo probabilmente giocato le nostre migliori partite dell’anno. È stata un’esperienza bellissima. Anche se si tratta di un campionato giovanile, vincere è sempre una grande emozione. Ti abitua a giocare con la pressione di una finale e a vivere certe situazioni con la giusta mentalità. Certo, un campionato Under 18 resta pur sempre un campionato giovanile, ma è stato un percorso che mi ha fatto crescere molto e che mi ha lasciato davvero tanto".
In questo periodo hai anche avuto l’opportunità di toccare la Nazionale. Sei stato convocato per alcuni raduni a Coverciano. Raccontami com’è stato avvicinarsi a quell’ambiente e cosa hai vissuto.
“Coverciano è stata un'esperienza speciale. Fin dal primo momento in cui sono entrato, ho percepito un’atmosfera diversa, unica. Si respirava calcio ovunque, ma soprattutto si sentiva la professionalità. È un ambiente che, da ragazzino, può anche un po’ spaventare: ti ritrovi in un luogo simbolo, vedi i campi della Prima Squadra e delle giovanili, tutti perfetti, tutto incredibile rispetto a quello a cui sei abituato. L’impatto può essere forte, ma credo di essermi espresso bene anche in quelle partite. Purtroppo, non ho avuto modo di tornarci, ma sarebbe bello riuscirci un giorno. Chissà, mai dire mai".
Poi arriva il passaggio alla Primavera del Venezia. Inizialmente non è stato facile per te...
“Sì, perché sono arrivato al Venezia, se non sbaglio, l'ultimo giorno di mercato. Non so esattamente il motivo, ma il fatto di trasferirmi così tardi ha reso tutto più complicato. Era la prima volta che mi allontanavo dal Genoa e, soprattutto, che andavo a vivere fuori casa. Non mi sono trovato male, ma era un gruppo particolare, composto principalmente da ragazzi stranieri: su 25 giocatori, solo 5 erano italiani. Questo significava che nello spogliatoio si parlava principalmente inglese. All’inizio è stata una difficoltà in più, ma col tempo ho migliorato le mie capacità di comunicazione e ho imparato a capire meglio il loro modo di giocare, che è molto diverso dal nostro. L’inserimento è stato un po’ difficile anche perché il gruppo era già formato. Il ritiro era già stato fatto e si erano create le solite dinamiche di spogliatoio, con gerarchie e piccoli gruppi. Arrivando all’ultimo, mi sono trovato un po’ in disparte. Inoltre, la barriera linguistica non aiutava. Nonostante questo, è stata una bella esperienza. Le strutture erano di alto livello, si respirava un ambiente professionistico e sicuramente questo percorso mi ha aiutato a crescere e a maturare, sia come giocatore che come persona".
In tutto il tuo percorso nelle giovanili, c’è qualcuno che senti di dover ringraziare?
“Credo che ogni allenatore, in un modo o nell’altro, mi abbia lasciato qualcosa. Anche quelli con cui magari non ho avuto un ottimo rapporto hanno contribuito alla mia crescita, perché un anno insieme ti trasmette comunque qualcosa. Se dovessi fare due nomi in particolare, direi Andrea Bianchi, un allenatore storico del Genoa, che ho avuto quando ero molto piccolo, intorno ai 9 o 10 anni. Poi c’è Gervasi, con cui inizialmente il rapporto era un po’ difficile perché non ci capivamo, ma con il tempo abbiamo imparato a comprenderci sempre di più. Detto questo, mi sembrerebbe ingiusto nominare solo loro, perché ho avuto tanti mister che mi hanno lasciato qualcosa. Ricordo Brunello, che ti insegna veramente a giocare a calcio. Poi c'è stato mister Corradi, che ho avuto in Under 18, e ovviamente mister Ruotolo, con cui ho vinto lo Scudetto e mi sono trovato molto bene. Insomma, sono stato seguito da allenatori di alto livello, che mi hanno aiutato a crescere, ognuno a modo suo".
Poi arriva il passaggio tra i grandi, anche se fai ancora una stagione da fuori quota in Serie D. Decidi di affrontare il primo step nel calcio dilettantistico, scegliendo il Borgosesia, se non sbaglio, dove tra l’altro disputi un’ottima stagione in termini di presenze.
“Borgosesia è stata la stagione che mi ha rilanciato, perché arrivavo da un anno in Primavera un po’ particolare. Non avevo una grande visibilità sul mercato, quindi alla fine la scelta è ricaduta sul Borgosesia, che era una delle migliori opzioni per me. Era una squadra che puntava molto sui giovani, con un direttore sportivo che mi aveva già cercato l’anno prima per portarmi in Serie D. Anche con il mister mi sono trovato subito bene, perché mi ha dato fiducia e la possibilità di giocare, sbagliare e imparare. La Serie D è un campionato completamente diverso da quelli giovanili: ti scontri con giocatori più esperti, fisicamente più strutturati e con una cattiveria agonistica diversa. Bisognava adattarsi, ma grazie al supporto dello staff e della squadra sono riuscito a trovare subito la mia dimensione. Ho risposto bene fin da subito, poi, con il passare delle partite, sono riuscito a dare continuità alle prestazioni e a fare una stagione importante anche a livello di numeri. È stata un’esperienza molto bella e significativa. Spero di poter vivere di nuovo un’annata del genere, perché significherebbe ritrovare quella costanza di rendimento che negli ultimi anni è un po’ mancata. Ovviamente, poi c’è stato un ulteriore salto di categoria, ma vediamo cosa riserverà il futuro".
Qual è stata la principale difficoltà nel passare dai campionati giovanili, come la Primavera, a un campionato tra i grandi, seppur in Serie D?
“La differenza principale sta nella fisicità e nella mentalità. Nei campionati giovanili spesso si punta molto sull’estetica del gioco, mentre nei campionati dei grandi conta di più il risultato. In Serie D, ad esempio, incontri giocatori che magari tecnicamente sono meno dotati, ma compensano con esperienza, aggressività e intensità. Ti stanno addosso, non ti concedono spazio e ti impediscono di giocare pulito. Se non impari a giocare in condizioni difficili, quando non hai il tempo e gli spazi giusti, rischi di essere tagliato fuori dal gioco. È un tipo di calcio molto più concreto e diretto, dove devi adattarti in fretta se vuoi emergere".
Dopo l’ottima stagione in Serie D, arriva il salto tra i professionisti con il Pontedera in Serie C, dove torni a giocare in un campionato professionistico a tutti gli effetti. Com’è stata quell’esperienza? Successivamente hai giocato anche con il Sestri Levante e quest’anno con il Gubbio.
“Dopo l’ottima stagione in Serie D, arriva il salto tra i professionisti con il Pontedera in Serie C. È stata un’esperienza importante, anche se inizialmente ho dovuto adattarmi alla nuova categoria e fare un po’ di gavetta. Ero in una squadra forte, con un reparto offensivo competitivo e giocatori di esperienza come Nicastro, oltre a diversi giovani talentuosi. L’ambiente era positivo, ci allenavamo bene e il girone d’andata è stato ottimo. Purtroppo, ho avuto poco spazio, ma era normale essendo al primo anno tra i pro: dovevo ancora crescere e imparare a stare al passo. A Sestri Levante, invece, la situazione era completamente diversa: una neopromossa con l’obiettivo di salvarsi e diverse difficoltà, come il campo di casa non disponibile. È stata una scuola importante, perché lì ho imparato a lottare ogni partita e a gestire la pressione di dover fare punti per la salvezza. Inoltre, ho capito meglio le dinamiche di un campionato professionistico e come comportarsi in campo. Quest’anno sono partito tardi con il Gubbio, arrivando a fine mercato. All’inizio ho avuto poco spazio, ma poi, complici alcuni infortuni, ho avuto la possibilità di giocare con continuità e dimostrare di poter stare in categoria. Nonostante le poche presenze, ho segnato due gol e fatto buone prestazioni. A Gubbio ho anche imparato a vivere il calcio come un percorso, senza farmi condizionare solo dalla domenica: questa mentalità mi ha aiutato a farmi trovare pronto quando è arrivata l’occasione".
So che, oltre al calcio, hai coltivato anche la passione per il disegno e la musica.
“Sì, ho frequentato il liceo artistico, quindi quel mondo mi ha sempre affascinato e continuerà a piacermi. Purtroppo, con il mio percorso sportivo, è difficile dedicarsi pienamente agli studi, soprattutto perché spesso richiedono la presenza fisica. Però mi piace tenermi informato, leggere e allenare la mente. Il calcio è imprevedibile: non sai mai dove ti porterà, se dovrai valutare altre strade o raggiungerai traguardi inaspettati. Per questo cerco di restare aperto a nuove possibilità, magari tornando a studiare in futuro".
Nel nostro Almanacco sei stato paragonato a giocatori come Zola, Rui Costa e Oyarzabal. Ti rivedi in qualcuno di loro? Hai avuto un idolo a cui ti ispiravi da piccolo o a cui ti ispiri tuttora?
“Non ho mai avuto un modello preciso, ma ci sono stati giocatori che mi piaceva guardare, soprattutto Van Basten, che mi ha fatto conoscere mio padre, e Baggio, che ho scoperto più avanti e ho sempre considerato fenomenale. Mi piace osservare diversi attaccanti e provare a cogliere qualcosa dal loro gioco per adattarlo al mio stile. Tra i giocatori in attività, ovviamente Messi e Ronaldo sono punti di riferimento per chiunque, ma non ho un preferito in assoluto. Amo il calcio, ma più giocarlo che guardarlo. A differenza di mio padre e mio fratello, che seguono ogni partita, io preferisco analizzare video specifici o rivedere le mie partite per capire dove migliorare. Certo, mi piace anche guardare grandi match come Real Madrid-Manchester City, ma il mio approccio è più mirato al mio percorso di crescita".
Quali sono i tuoi obiettivi per il futuro?
“Il mio obiettivo principale è raggiungere il massimo delle mie possibilità, senza fissarmi traguardi specifici di categoria, perché potrebbero essere sia motivanti che demotivanti. Voglio continuare a fare bene, dare il mio contributo alla squadra e non fermarmi a un solo gol, ma cercare di segnare ancora. Non penso in termini di obiettivi a lungo termine, ma preferisco concentrarmi su miglioramenti quotidiani, perché se lavoro bene ogni giorno, i risultati arriveranno di conseguenza. Non voglio vivere eventuali traguardi non raggiunti come delusioni o rimpianti. So che alcuni giocatori si pongono obiettivi numerici, come segnare 20 gol, ma ho capito che per me funziona un approccio diverso: focalizzarmi sul migliorare giorno dopo giorno, applicarmi con costanza e dare sempre qualcosa in più. Questo metodo mi ha già portato risultati, come dimostrato a Pontedera e anche quest’anno, quindi il mio unico obiettivo è continuare su questa strada".