La sua Lucchese, gli inizi con l'Empoli e Sarri: l'intervista a Gemignani!

Dai primi passi con l’Empoli alla maglia della Lucchese, le esperienze con Sarri e Montero: il racconto di Gemignani in esclusiva a LGI.
31.01.2025 12:00 di  Francesco Benincasa   vedi letture
©instagram/andreagemignani
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Andrea Gemignani ha appena messo a segno il suo secondo gol con la maglia della Lucchese, un momento significativo sia per lui che per la squadra. La sua rete si è rivelata decisiva, regalando ai rossoneri una vittoria preziosa in un momento particolarmente delicato della stagione. La Lucchese, infatti, sta attraversando un periodo complicato, in cui ogni punto risulta fondamentale per il prosieguo del campionato. Il gol di Gemignani non è solo una soddisfazione personale, ma rappresenta anche una boccata d’ossigeno per il gruppo, che ora può guardare con maggiore fiducia ai prossimi impegni.

Buongiorno Andrea e grazie per la disponibilità. Hai segnato il tuo secondo gol in campionato con la Lucchese. Partiamo da quella rete che ha deciso la partita.

“Segnare un gol nello stadio della propria città è sempre un'emozione unica. Fortunatamente, non è la prima volta e mi auguro che non sia nemmeno l'ultima. Spero che, in questo ultimo periodo, riusciremo a rifarci nel modo migliore possibile, sia come crediamo sia come possiamo. Questo è ciò che conta".

Che emozione è giocare per la squadra della tua città? E, allo stesso tempo, che peso comporta vestire questa maglia?

“Ne ho già parlato in un'altra intervista, ma è una domanda che mi fa sempre piacere ricevere. Dal punto di vista personale, posso dirti che non sempre mi lascio influenzare dall’ambiente circostante. Sono una persona molto obiettiva. Però è chiaro che Lucca, per me, è sempre stata casa. Anche quando sono lontano, quando torno dico sempre: 'Vado a casa, torno a Lucca, rivedo i miei amici a Lucca'. Quando la chiamata è arrivata, il mio sì è stato immediato, senza esitazioni. Credo che da nessun’altra parte avrei provato una sensazione simile. È qualcosa che senti dentro, che ti spinge, e non so neanche come spiegarlo a parole. Giocare per la propria città ti mette inevitabilmente sulle spalle un peso diverso. Ma è un peso che impari a portare con te, che quasi diventa un compagno di viaggio. Cerchi di trasformarlo in un’energia positiva per trascinare anche i tuoi compagni. Perché sì, perdere fa parte del calcio, ma perdere con la squadra della propria città ha un peso diverso. Infatti, quest’anno, considerando che la stagione non è andata come avremmo voluto, è qualcosa su cui rimugino spesso. Anche i miei amici, a volte, mi dicono: 'Dai, esci con noi, distraiamoci un po'. Ma non è semplice scrollarsi di dosso certe cose. Magari non lo trasmetto in modo così evidente ai miei compagni, ma sto cercando di far loro capire quanto sia importante fare bene in una piazza come Lucca. Perché, che se ne parli o meno, Lucca resta sempre Lucca. È una piazza di grande valore".

Immagino anche che avere gli amici tra i tifosi renda tutto ancora più speciale. E magari, se capita una partita storta, uscire per strada diventa non dico difficile, ma quantomeno particolare.

“Sì esatto. Fin dalle prime partite, anzi fin dalla presentazione, ho percepito questa vicinanza. Quando mi sono presentato ai tifosi, già sapevo che molti dei miei amici sarebbero venuti allo stadio. Alcuni di loro fanno parte della curva, ed è sempre bello sapere di avere il loro supporto. Prima magari mi seguivano a distanza, adesso sono lì, sugli spalti, a vedere ogni partita. Chiaramente, che io giochi o meno, loro sanno cosa accade, conoscono la situazione. Questo rende tutto ancora più speciale. E poi, quando esulti dopo un gol, il bello è proprio quello: ritrovarti di fronte non solo volti nuovi, ma anche quelli familiari, quelli degli amici di sempre. Spesso capita di incrociare lo sguardo con qualcuno di loro ed è una sensazione unica, una felicità condivisa".

Tu hai iniziato con l’Atletico Lucca, ma da giovanissimo sei stato notato e preso dall’Empoli. Che ricordi hai di quel passaggio? Empoli è sempre stata una realtà importante nel calcio italiano.

“Fin da piccolo, i miei genitori mi hanno sempre detto che non ero particolarmente attratto dal calcio. Devo tanto a mio fratello, che mi ha spinto a muovere i primi passi in questo mondo. Lui è del ’94, quindi ha due anni più di me, e mi ha accompagnato nei miei primi approcci al pallone. Giocavamo insieme, facevamo passaggi, provavamo qualche tiro in porta, come capita spesso nei primi anni di scuola calcio. Poi è arrivata la chiamata dell’Empoli. Avevo otto anni e da lì è iniziato un percorso lungo, sicuramente impegnativo, ma anche molto bello. È stato difficile perché ha richiesto tanti sacrifici, sia da parte mia che della mia famiglia. I miei genitori, in quegli anni, hanno fatto sforzi enormi. All’inizio, per esempio, non c’era un pulmino a disposizione. Ogni giorno i miei dovevano venire a prendermi a scuola, farmi uscire prima, portarmi il pranzo, farmelo mangiare al volo in macchina e affrontare un’ora di viaggio per portarmi agli allenamenti. Poi, ovviamente, c’era il ritorno. È un impegno che non si prende alla leggera, ma spesso non ci si pensa. Per fortuna, col tempo, questi sacrifici sono stati ripagati. Durante gli undici anni a Empoli ho visto passare tantissimi giocatori, ho stretto amicizie e ancora oggi sono in contatto con molte persone di quel periodo. Alcuni, purtroppo, col tempo si perdono, ma rimangono comunque parte del mio percorso. Devo tanto a chi mi ha cresciuto calcisticamente, a partire da Mario Cecchi, un allenatore che ho avuto per tre anni e che mi ha insegnato moltissimo. Ora è il secondo di Inzaghi all'Inter, quindi parliamo di una persona di grande livello. Negli ultimi due anni, poi, quando ho firmato il mio primo contratto da professionista con l’Empoli, sono stato aggregato alla prima squadra. Facevo la classica routine: allenamenti con la prima squadra e partite del sabato con la Primavera. In alcune occasioni, poi, ero convocato in prima squadra e andavo in panchina con mister Sarri. Guardandomi indietro, posso dire che ho seguito un percorso che mi ha formato sotto tanti aspetti, non solo tecnici ma anche caratteriali. Mi ha insegnato cosa significa stare in questo mondo e come affrontarlo. E spero che questo viaggio possa continuare ancora per tanti anni".

Prima di parlare della Primavera, con gli Allievi avete disputato una stagione davvero importante, che si è interrotta nelle fasi finali contro il Parma. Che ricordo hai di quella partita e di quel periodo?

“È stata un’esperienza bellissima, perché arrivare alle fasi finali del campionato nazionale ti lascia un bagaglio importante, sia dal punto di vista tecnico che umano. Ho sicuramente un bel ricordo di quel percorso, ma anche un grande rammarico. In quella finale segnai il gol del 2-1, ma purtroppo la partita finì con una sconfitta. È proprio in momenti come quello che inizi a capire quanto anche un piccolo sforzo in più possa fare la differenza e magari cambiare il destino di una carriera. Forse non sarebbe cambiato nulla, ma avere nel proprio curriculum un traguardo tangibile, un trofeo vinto, è sempre qualcosa che conta. Il rammarico più grande è proprio quello di non essere riuscito a portare a casa la mia prima coppa con compagni con cui ho condiviso tanti anni, alcuni addirittura per otto stagioni. Creare un legame così lungo nel settore giovanile è raro, ed è anche per questo che ci tenevo tanto. Poi sì, affrontavamo il Parma, una squadra blasonata, che in quegli anni ha visto emergere diversi giocatori di talento. Però la vera fortuna è stata crescere in un ambiente come quello dell’Empoli, sempre sano e con una mentalità giusta. Non dico il migliore in assoluto, ma sicuramente uno dei migliori in Italia per come gestivano il settore giovanile. Facevano le cose con criterio, con idee chiare, ed è questo l’aspetto che mi porto dentro con più affetto".

Con l’Empoli, poi, hai avuto anche la possibilità di vestire la maglia della Nazionale. Indossare l’azzurro, anche a livello giovanile, dev’essere stata una grande soddisfazione.

“Assolutamente. La Nazionale è sempre la Nazionale. Giocare per i tuoi colori, rappresentare l’Italia, è qualcosa di speciale. È stata una grande esperienza, ho avuto la fortuna di essere convocato con l’Under 18 e poi con l’Under 19, partecipando anche alle qualificazioni per l’Europeo. Anche in quel caso, però, è rimasto un po’ di rammarico. Non venni convocato per la fase finale del torneo. Parlai con il mister Alessandro Pane, che in quel periodo era alla guida dell’Under 19. Venne a parlarmi direttamente a Empoli perché ci teneva, sapeva della mia delusione. Non avevamo un brutto rapporto, anzi, ma chiaramente le sue scelte andavano rispettate. Gli dissi che mi sarebbe piaciuto moltissimo far parte di quella squadra fino alla fine, ma che io ero un giocatore e lui l’allenatore, quindi spettava a lui decidere chi fosse più adatto per rappresentare l’Italia in quel momento. Nonostante la delusione, gli ho sempre riconosciuto il merito di avermi dato un'opportunità importante e l’ho ringraziato per questo".

Prima di passare al tuo percorso da professionista, torniamo un attimo alla Primavera dell’Empoli. Era legata anche alla prima squadra. Com’era allenarsi in quell’ambiente? In quegli anni l’allenatore era Maurizio Sarri, non proprio uno qualunque...

“Sì esatto, quello fu uno degli anni migliori nella storia dell’Empoli. C’erano giocatori importanti, e allenarsi con loro significava affrontare un cambiamento radicale rispetto alla Primavera. Non solo a livello di ritmo e intensità, ma soprattutto dal punto di vista mentale. Alla fine, nel calcio, la cosa più importante è la velocità di pensiero. Puoi correre quanto vuoi, ma se con il pallone tra i piedi non sai cosa fare, diventa inutile. Quella squadra mi ha temprato molto. Io mi sono sempre visto come un 'soldatino': sono uno che segue le indicazioni, che lavora sodo, che ascolta e si mette a disposizione. Forse, a volte, avrei dovuto concedermi un po’ più di libertà in campo, ma quando sei giovane e vuoi fare una buona impressione, cerchi sempre di assorbire tutto e di imparare il più possibile dai grandi. Non ho mai preso le critiche sul personale. Se un compagno o un allenatore ti dice qualcosa, anche in modo duro, non lo fa per rimproverarti, ma per aiutarti a migliorare. Loro ci sono già passati prima di te, hanno vissuto certe dinamiche e sanno cosa serve per crescere. La differenza tra allenarsi con i grandi e poi scendere a giocare con la Primavera si sentiva subito. Quando tornavo a giocare con i ragazzi della mia età, tutto sembrava più semplice: vedevo le giocate in anticipo, le gambe andavano da sole, sentivo meno la fatica. Perché? Perché i carichi di lavoro erano diversi, l’intensità era un’altra, e questo ti formava in maniera naturale. Infatti, la differenza tra il calcio giovanile e il calcio dei grandi è evidente fin dal primo impatto".

A proposito di questo, il tuo primo vero passo nel professionismo lo fai con il Pontedera, anche se avevi firmato già un contratto con l’Empoli. Qual è stato il cambiamento più grande che hai vissuto nel passaggio da Empoli a Pontedera? Come hai vissuto il cambiamento da giovane della Primavera che si allenava con la prima squadra a giocatore effettivo della prima squadra?

“Sì, sicuramente il cambiamento è stato significativo, ma ho avuto una grande fortuna. Quando sono arrivato a Pontedera, c’erano già alcuni compagni con cui avevo condiviso l’esperienza a Empoli, quindi non mi sono sentito spaesato. Inoltre, per un caso fortuito, anche mio fratello si è trasferito lì nello stesso anno e questo ha reso il tutto ancora più semplice per me. Ho avuto la possibilità di vivere il mio primo anno da professionista al suo fianco, il che mi ha dato un punto di riferimento costante. Ovviamente le difficoltà ci sono state, specialmente dal punto di vista calcistico, perché il salto dalla Primavera alla prima squadra si sente. Però la presenza di mio fratello mi ha aiutato molto a mantenere la serenità e ad affrontare con più sicurezza il nuovo contesto. In squadra avevamo un gruppo molto unito e giovane, grazie anche al direttore Giovannini, che ha sempre costruito squadre puntando su ragazzi di prospettiva. Naturalmente c’erano anche giocatori più esperti, come Vettori, storico capitano del Pontedera. Però lui, pur essendo un veterano, era un ragazzo d’oro, sempre pronto a stare con noi più giovani e a darci una mano. In generale, l’ambiente era positivo, nessuno si metteva su un piedistallo, tutti si aiutavano a vicenda. Questo è stato un fattore determinante per la mia crescita. A livello di tifoseria, è chiaro che Pontedera non avesse grandi numeri in termini di pubblico, ma quei pochi tifosi erano presenti ovunque e si facevano sentire nei momenti importanti. Questo ti dà sempre una spinta in più. Un altro aspetto fondamentale è stato l’allenatore. In quei due anni ho avuto Maraia, un tecnico molto bravo a lavorare con i giovani. Era meticoloso dal punto di vista tattico, ci faceva lavorare tantissimo su video e analisi delle partite. Il passaggio dalla Primavera alla prima squadra è stato un impatto forte, ma il fatto di aver già avuto l’opportunità di allenarmi con la prima squadra dell’Empoli mi ha aiutato molto. Ovviamente il peso delle partite si sente di più, perché sai di dover dimostrare il tuo valore ogni volta che scendi in campo. Sai che hai gli occhi puntati addosso e che tutto dipende dalle tue prestazioni: se fai bene, costruisci il tuo percorso; se fai male, rischi di bruciarti delle opportunità. Per fortuna, trovarmi in un gruppo giovane, con compagni che già conoscevo, mi ha permesso di vivere il tutto con maggiore serenità. Inoltre, quell’anno ho dovuto affrontare un problema di pubalgia piuttosto fastidioso. Non sapendo bene come gestirlo, ho ricevuto un grande aiuto da Della Latta, che mi ha dato consigli utili per superarlo. Grazie a lui, in un solo mese sono riuscito a risolvere il problema e a rientrare in squadra. In generale, posso dire di essere stato fortunato, perché sono sempre stato in contesti dove mi sono sentito tutelato e supportato sotto tanti punti di vista".

Hai girato diverse piazze importanti, come la SPAL, il Livorno, la Lucchese e lo stesso Pontedera. Quale di queste esperienze ti ha lasciato di più? C’è una squadra a cui sei particolarmente legato?

“Sì, nel cuore ho una squadra in particolare, ed è la Lucchese, anche per un legame affettivo: essendo di Lucca, la sento in maniera diversa dalle altre. Un’altra piazza che mi è rimasta dentro è stata la Sambenedettese. Mi sono trovato benissimo lì, davvero. Il primo anno, dopo sei mesi, sono andato in prestito ad Alessandria perché non mi trovavo in sintonia con l’allenatore e con le sue idee di gioco. In accordo con la società, abbiamo deciso di separarci per quegli ultimi 4-5 mesi. L’anno successivo, però, sono tornato e ho trovato una situazione diversa. Mi sono trovato benissimo con i compagni, molti dei quali erano già lì l’anno prima, e abbiamo vissuto un’annata intensa ma molto bella, sia a livello di squadra che a livello personale. Ho avuto anche la fortuna di essere allenato da Montero, che per me è stata una grande sorpresa. Da giocatore aveva un’immagine ben precisa, un difensore duro, grintoso, e non mi aspettavo che potesse trasmettermi così tanto a livello umano e calcistico. Invece, mi ha insegnato piccoli segreti da mettere nel mio repertorio e mi ha colpito anche per la sua capacità di gestire il gruppo. A livello umano era un fenomeno. Avendo vissuto il calcio ai massimi livelli, sapeva come gestire i giocatori, come tenere unito lo spogliatoio e come motivare la squadra. Eravamo una squadra forte e, secondo me, avremmo potuto fare meglio. Purtroppo siamo usciti subito ai playoff, e questa è una cosa che ancora mi brucia un po’. Ancora oggi mi sento con alcuni compagni e con dei tifosi della Sambenedettese, perché è una piazza che mi ha lasciato tanto. Seguo sempre i loro risultati, mi auguro che tornino presto dove meritano di stare.”

Nel nostro Almanacco sei stato inserito in due edizioni e in entrambe sei stato paragonato a Juan Camilo Zúñiga. Ti rivedi in questo paragone, per caratteristiche fisiche, atletiche e tecniche?

“Sì, sicuramente mi fa molto piacere, perché non è un complimento da poco. Io mi considero un giocatore intelligente, con buone letture di gioco. Con il tempo sono migliorato tecnicamente, mentre fisicamente sono un po’ calato rispetto a quando ero più giovane. Però ho ancora una buona gamba, che mi permette di spingere molto sulla fascia. Mi rivedo nel paragone con Zúñiga, ma il mio modello fin da piccolo è sempre stato Maicon. Da interista, lo consideravo il terzino perfetto, il prototipo del laterale moderno. Mio padre, tra l’altro, è un tifoso sfegatato dell’Inter, quindi in casa si respirava solo nerazzurro, soprattutto ai tempi del Triplete. Per me Maicon era il massimo.”

Oggi c’è un giocatore a cui ti ispiri particolarmente? Magari anche qualcuno che non gioca ai massimi livelli, ma da cui cerchi di rubare qualcosa?

“Non sono un fanatico del calcio nel senso tradizionale, non passo troppo tempo a guardare partite. Vivo il calcio ogni giorno, quindi non sento il bisogno di seguirlo ossessivamente. Ovviamente guardo le partite più importanti, soprattutto la Champions League, e l’Inter la seguo sempre. Se dovessi dirti un giocatore che mi piacerebbe davvero emulare oggi, direi Theo Hernández. Ha una gamba impressionante, una corsa incredibile, e un piede ottimo. Essendo un esterno, un terzino o un quinto di centrocampo, è un modello a cui cerco di ispirarmi.”