Cagliari nel cuore, la paura di lasciare e i record in C: Ladinetti si racconta
Con il suo gol su calcio di rigore, Riccardo Ladinetti ha segnato il suo secondo gol stagionale in campionato dando la vittoria al Pontedera contro il Pineto. Una rete dal peso specifico notevole, sia per il morale che per la classifica, in una stagione partita in salita ma che ora sta prendendo la piega giusta. Curiosamente, l’ultima trasformazione su rigore risaliva al 2021, un dettaglio che rende ancora più speciale il ritorno al gol dagli undici metri.
Parliamo di domenica, perché quel gol è stato davvero importante per voi...
“Sì, il mio ultimo gol l’ho segnato proprio col Pontedera, contro il San Donato. Non sono uno che fa tanti gol, purtroppo, e su questo devo ancora migliorare molto. E’ stato un gol fondamentale. Venivamo da una vittoria importantissima ad Arezzo e queste due vittorie di fila hanno davvero mosso la classifica. Siamo passati dall’essere in zona play-out a trovarci a pari punti con l’Ascoli, praticamente in zona play-off. Sono state due vittorie che ci hanno dato una grande spinta morale. Ti cambia proprio lo spirito nello spogliatoio, sai? Ti alleni con più serenità, c’è un’atmosfera diversa. Ovviamente, non bisogna mai abbassare la guardia. La Serie C è così: basta poco per ritrovarti giù, così come basta poco per risalire. Non c’è mai un momento in cui puoi rilassarti del tutto. Infatti, già domenica contro il Campobasso sarà una partita fondamentale. Se perdi, loro si allontanano e il rischio è grande. Quindi sì, quel gol è stato importante soprattutto per la squadra, perché ci ha portato la seconda vittoria di fila, ma anche per me a livello personale: è il mio secondo gol stagionale, e potrei già superare il mio record… che non è altissimo: due gol".
Torniamo un po’ indietro. Ho visto che hai iniziato nella scuola calcio di Sanluri, giusto? Che ricordi hai di quel periodo?
“Sì, ho iniziato a giocare a calcio a cinque anni e mezzo. Sono nato a fine 2000, sono quasi un 2001, ma mi allenavo già con i ragazzi del 2000, del ’99 e persino del ’98. Mi ricordo che ero in quarta elementare quando mi chiamò il Cagliari per fare un provino. Non so bene come funzionino oggi i provini, ma allora mi fecero giocare due partite con tantissimi altri ragazzi. Poi, a fine estate, mi dissero che mi avevano preso. Da lì è cominciata la mia avventura. Dai 10-11 anni fino ai 20-21 sono sempre rimasto a Cagliari".
Che cosa ha significato per te crescere nel settore giovanile del Cagliari? Immagino che per un ragazzo sardo sia un’esperienza unica…
“Per un sardo, il Cagliari è tutto. La Sardegna è come una Nazione a parte per noi, non so spiegartelo bene. La mia terra non la cambierei con nulla al mondo, davvero. Il mio sogno sarebbe tornare un giorno a giocare nel Cagliari. Se ci riuscirò, bene, altrimenti resterà comunque un sogno speciale per me. Mia madre, poi, era tifosissima: andava in Curva Nord, faceva le trasferte… E pensa che sono figlio unico, quindi le probabilità che arrivassi a giocare nel Cagliari erano bassissime! E invece, non solo ci sono riuscito, ma ho avuto anche l’onore di esordire. Ho fatto tutta la trafila nel settore giovanile: dai Giovanissimi provinciali e regionali agli Allievi, fino ai Giovanissimi nazionali".
Nel Cagliari, però, sei diventato anche un leader. Sei stato uno dei capitani delle giovanili, corretto?
“Sì, il mio primo anno in Primavera ero sotto età. Giocavo con i fuori quota e il nostro capitano era Antonini, che ora gioca al Catanzaro. Mi ricordo una partita contro l’Avellino: giocavo da trequartista e segnai una tripletta. Da lì, Lopez — che era l’allenatore della prima squadra — mi chiamò in prima squadra. Avevo 16 anni e fui convocato per la mia prima panchina in Serie A, contro il Torino. In quella squadra c’erano Barella, Cigarini, Sau… Era incredibile. Quell’anno vincemmo la Primavera 2 e l’anno dopo, sempre con Canzi arriva Agostini in secondo, che poi me lo sono ritrovato quest’anno, arrivammo quasi ai playoff in Primavera 1. Poi c’è stato l’anno del Covid. Io ero capitano, e in quella stagione eravamo secondi o primi a pari punti con l’Atalanta, ma il campionato fu interrotto a marzo. Peccato, perché avremmo potuto fare qualcosa di storico: nessuna Primavera del Cagliari aveva mai vinto il campionato”.
Hai citato mister Canzi, volevo chiederti proprio di lui perché alla fine è un nome che ritorna spesso nella tua carriera, no? Che giudizio hai di lui, sia come allenatore che come persona?
“L’ho avuto il primo anno di Primavera e poi per tre stagioni di fila. Successivamente, due anni a Olbia e poi l’ho ritrovato al Pontedera. In totale sono stato con lui per sei anni consecutivi. Ho un giudizio molto positivo, perché con lui sono davvero cresciuto. Sono passato dall’essere un ragazzino a diventare quasi un uomo. Mi ha visto trasformarmi nel corso degli anni e penso che sia felice del percorso che ho fatto, così come lo è per tanti altri miei ex compagni. Dal punto di vista tecnico, è un allenatore molto bravo. Non a caso gli hanno dato un’opportunità importante alla Juventus Women. Il calcio femminile non è certo inferiore a quello maschile, anzi, e guidare una squadra come è la Juventus è un traguardo notevole. Sono davvero contento per lui. Dovunque sia andato, ha sempre fatto bene. A Olbia e al Pontedera, con lui, abbiamo fatto il record di punti della storia di entrambe le società. È stata una soddisfazione enorme per entrambi”.
C’è qualcuno, oltre a Mister Canzi, che ti senti di ringraziare per il tuo percorso nel settore giovanile?
“Assolutamente sì. Oltre a Canzi, devo ringraziare tantissimo Alessandro Agostini e Daniele Conti. Sono stati fondamentali, anzi, direi di più: mi hanno davvero fatto capire cos’è il calcio. Eravamo ragazzini, un po’ inconsapevoli, e loro, con la loro esperienza – parliamo di due persone con più di 400 presenze in Serie A – ci hanno aperto gli occhi. Ci hanno insegnato cosa significa indossare la maglia del Cagliari, soprattutto a noi sardi. Non solo a me, ma anche a ragazzi come Andrea Carboni, Salvatore Boccia, Marigosu, Lombardi, Gagliano e tanti altri. Andrea sta facendo una carriera incredibile e ormai è un punto fisso in Serie A, ma tutti noi dobbiamo moltissimo a Conti e Agostini”.
Parliamo del tuo esordio con il Cagliari. Hai giocato tre partite: contro Sassuolo, Udinese e Milan. Che ricordi hai di quelle gare?
“Il mio esordio è stato contro il Sassuolo, poi sono stato titolare contro l’Udinese e infine ho giocato a San Siro contro il Milan. Ricordo tutto come fosse ieri. Tornavamo dagli allenamenti post-Covid, noi della Primavera ci allenavamo con la prima squadra. Era Cagliari-Sassuolo, giocava Birsa e in panchina c’era Zenga. Non mi aspettavo di entrare, per niente. Finisce il primo tempo e Zenga si gira verso di me e dice: 'Vai a scaldarti, entri subito'. Non ci potevo credere. Era il mio sogno: esordire con la maglia del Cagliari, la squadra che ho sempre amato, che hanno amato i miei genitori. È stato un momento perfetto. In più, entra Andrea Carboni, che viene espulso poco dopo, ma nonostante tutto pareggiamo 1-1 con gol di João Pedro. Per me è stata come una vittoria. Mi ricordo che Luca Cigarini, che stimo tantissimo, era in tribuna. È uno dei giocatori più intelligenti che abbia mai conosciuto. Scese apposta dagli spalti per darmi qualche consiglio. Non era una cosa scontata, e ogni volta che ci rincontriamo, anche quando giocava alla Reggiana, lo chiamavo Il Professore per quanto lo ammiravo. Cercavo sempre di imparare da lui, ma era davvero difficile stargli dietro!”.
Dopo questa esperienza con il Cagliari, passi all’Olbia. Possiamo dire che è lì che diventi ufficialmente un giocatore professionista?
“Esatto, quella è stata la mia prima vera stagione da professionista in Serie C. È andata molto bene: due gol, diversi assist e una squadra forte. Alla fine della stagione, dopo il mio buon rendimento, mi dissero che sarei rimasto a fare il ritiro con il Cagliari in Serie A e che avrei potuto giocarmi le mie carte lì. Sembrava tutto perfetto, poi però succede qualcosa che non ti aspetti. Durante le visite mediche di routine, mentre ero sulla cyclette, il dottore mi fermò dicendo che c’era qualcosa che non andava. Da lì, un incubo: visite a Villa Stuart, Milano e Padova. Mi diagnosticarono un problema al cuore. Mi fermarono per tre mesi senza poter fare assolutamente nulla, solo medicine. Dopo quei tre mesi, ne servirono altri tre per tornare in forma. Fu una vera mazzata. Nel momento migliore della mia carriera, quando stavo per lanciarmi davvero, successe tutto questo. Giocai qualche minuto in Coppa Italia contro il Sassuolo, ma poi tornai a Olbia solo a gennaio".
Devi aver avuto paura di smettere...
“Sì, tantissima paura. Quando il problema riguarda il cuore, non è una cosa da poco. Nessuno mi dava la certezza che sarei potuto tornare a giocare. È stato il periodo più brutto della mia vita. Mi sono sentito quasi in depressione, mi chiedevo continuamente: 'Perché proprio adesso? Cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?'. È stato davvero un periodo buio".
Fortunatamente si risolve. Poi torni in prestito all’Olbia.
“Sì, torno all’Olbia e disputiamo i play-off. Poi, a fine anno, succede che litigo con alcune persone a Cagliari. Non voglio nemmeno fare i nomi, però da quel momento ho deciso di rescindere il contratto. Loro volevano continuare a mandarmi in prestito, ma questa cosa non mi piaceva. Non mi sentivo più apprezzato, né avvertivo fiducia nei miei confronti. E quando non senti più fiducia, anche se ami quella squadra più di ogni altra cosa al mondo, alla fine scegli di andare via. È stata una decisione dura perché il Cagliari è la squadra che ho sempre amato e che continuo ad amare".
E dopo Olbia, che percorso hai fatto?
“Dopo l’esperienza all’Olbia, ho firmato per un anno con il Pontedera. È stata una stagione fantastica: abbiamo fatto il record di punti della storia della società, ho giocato praticamente tutte le partite e mi sono trovato benissimo. Lì ho conosciuto persone che oggi sono alcuni dei miei migliori amici. Parlo di Bonfanti, Marcandalli, Parodi e Shiba. Siamo diventati un gruppo affiatatissimo: facciamo le vacanze insieme, ci sentiamo ogni giorno. Pontedera è stata una tappa speciale non solo dal punto di vista calcistico, ma anche umano. Ho incontrato persone che, sono sicuro, mi accompagneranno per tutta la vita".
Hai giocato in tante piazze importanti e storiche per i campionati che fanno. Al di là dei record con Olbia e Pontedera, cosa hai imparato da ogni esperienza? C’è una piazza che ti ha colpito particolarmente?
“Dopo Pontedera sono andato a Catania. È una piazza da Serie A, un ambiente incredibile. Purtroppo però le cose non sono andate come speravo, forse anche per colpa mia. Mi dispiace molto perché la società e i tifosi avevano grande fiducia in me. Non sono riuscito a mantenere quelle aspettative, e questa cosa mi ha lasciato l’amaro in bocca. A gennaio, poi, sono passato al Taranto, dove invece ho trovato un gruppo fantastico. Ancora oggi ci sentiamo spesso: abbiamo un gruppo WhatsApp della squadra e siamo sempre in contatto. Taranto e Catania sono piazze molto simili, entrambe calorose e passionali. Purtroppo Taranto sta vivendo un periodo difficile, ma sono piazze che ti lasciano tanto".
Nel nostro Almanacco sei stato inserito in due edizioni e ti hanno sempre paragonato a Claudio Marchisio. Ti rivedi in questo paragone?
“No, assolutamente no (ride). Come tipo di giocatore siamo diversi. Marchisio era più una mezzala, uno che si inseriva tanto e segnava parecchi gol. Io sono più un play statico, uno che resta basso per dare equilibrio alla squadra".
E a chi ti ispiri come giocatore?
“È difficile trovare un paragone. Forse, se proprio devo dirlo, un piccolo Cigarini. Non voglio paragonarmi a Busquets, che è il più forte della storia in quel ruolo ed è il mio idolo assoluto. Da piccolo guardavo molto Pirlo, ma crescendo ho cominciato a studiare Busquets. Guardavo quello che faceva in partita, ma replicare i suoi movimenti è quasi impossibile. Però devo dire che, avendo avuto la fortuna di stare vicino a Cigarini per tanto tempo, è stato lui il giocatore che più osservavo per imparare e capire tante dinamiche di gioco".
E oggi c’è un giocatore al quale ti ispiri o dal quale cerchi di rubare qualche trucco?
“Un giocatore che mi piace tantissimo è Lobotka, per la tranquillità con cui gioca la palla. È un play puro, uno che incanta per come gestisce il ritmo della squadra. Poi c’è Paredes, un altro che mi fa impazzire. È un play che mi piace molto per qualità e visione di gioco. Calhanoglu? Sì, anche lui gioca da play ora, ma è più dinamico, un adattato in quel ruolo".
Ultima domanda: quali sono gli obiettivi personali di Riccardo?
“Il mio obiettivo è fare sempre il massimo, dare tutto. È difficile da spiegare, ma voglio fare il possibile per migliorarmi ogni giorno. Soprattutto per la mia famiglia, che si è sacrificata tantissimo per farmi arrivare dove sono oggi. Chissà, magari un giorno riuscirò a tornare dove sognavo di stare. Non si può mai dire che sia tutto finito".