Eravamo LGI: Roberto Biancu
Un legame con la propria terra difficilmente spiegabile. Un talento purissimo con il pallone tra i piedi. Un percorso che, se possibile, gli ha consentito di rafforzare ulteriormente radici e senso di appartenenza. Il sardo e il calcio come linguaggi che ne hanno accompagnato la crescita. Roberto Biancu, fantasista dell’Olbia, inserito nel libro dedicato ai migliori giovani italiani dal 2017 al 2020, senza soluzione di continuità, ha solo 22 anni. E ci teniamo a specificare che il “solo” posto davanti all’età non è legato alla sua maturazione calcistica. Quella, infatti, nonostante siamo abituati a pensare che un ragazzo del 2000 non sia pronto per giocare con i grandi, è già a buon punto. Abbiamo scritto “solo” perché, come lui stesso ammette, è già riuscito a realizzare i sogni di qualsiasi bambino sardo a cui piace giocare a pallone. E in un periodo in cui i due principali club dell’isola, nonché le due squadre del cuore di Biancu, hanno perso una sola gara nelle ultime sette, ci sembrava giunto il momento perfetto per intervistarlo.
Ciao Roberto. Per raccontare la tua storia non si può fare altro che partire dall’inizio e dalla tue radici. Nasci a Sassari, inizi a giocare nel Latte Dolce – la società probabilmente più famosa della tua città – e poi passi alla Polisportiva Lanteri, una scuola calcio molto prestigiosa. Cosa ti ricordi di quei primi anni passati a rincorrere un pallone?
“Ho iniziato a 5 anni. Ovviamente quando sei bambino non pensi che la tua passione possa diventare un vero e proprio lavoro, però mi ricordo benissimo che già all’epoca io sognavo di fare il calciatore. Era la risposta che davo quando mi facevano la classica domanda: «Cosa vuoi fare da grande?». Anno dopo anno il mio rapporto con il pallone non è cambiato, così come non è diminuito il divertimento genuino che provavo giocandoci; ho semplicemente cominciato a pormi obiettivi mano a mano più concreti e più ambiziosi. Diciamo che, da quando sono arrivato al Cagliari, il sogno è rimasto quello di sempre, ma ho iniziato a lavorare per raggiungerlo”.
Spesso le persone che giocano un ruolo fondamentale nella nostra crescita sono quelle che conosciamo da piccoli. C’è stato qualcuno – un allenatore, un dirigente o un’altra figura – che in quei primi anni è stato particolarmente importante per il tuo percorso?
“Non posso che fare i nomi di Massimiliano Ribichesu e Sara Casu, i primi mister che ho avuto al Latte Dolce. Quando hanno lasciato la società, passando alla Polisportiva Lanteri, ho deciso di seguirli. Mi hanno aiutato e insegnato davvero tantissimo. Ribichesu, in particolare, mi ha allenato dai Pulcini ai Giovanissimi. Praticamente, in campo, sono cresciuto con lui”.
Attiri presto l’attenzione di numerosi club professionistici. La concorrenza è molto folta (tra le altre ci sono anche Sampdoria e Roma) e tu scegli il Cagliari. Cosa ti ha spinto ad accettare la corte dei rossoblù?
“Per un ragazzo sardo la prima scelta non può che essere il Cagliari. Senza considerare il fatto che ero molto giovane e non me la sentivo di trasferirmi così tanto lontano da casa”.
L’anno di svolta della tua carriera probabilmente non coincide con una stagione calcistica, ma proprio con un anno solare: il 2016. Innanzitutto, a febbraio, compiuti da poco i 16 anni, fai il tuo esordio in Primavera, diventando il 6° giocatore più giovane nella storia del Cagliari a debuttare in Under 19. Mi racconti quel giorno?
“È stata un’emozione pazzesca. Ero il più giovane di tutta la squadra ed esordire fu una soddisfazione enorme. Tra l’altro la partita non era delle più banali: giocavamo contro l’Inter che quell’anno arrivò prima in classifica. In squadra avevano tanti giocatori che adesso giocano in Serie A: Pinamonti, Kouamè, Radu… Quando il mister mi disse di entrare avevo una voglia matta di sfruttare al massimo l’occasione che mi stava capitando”.
Poi vieni convocato in Nazionale. Da marzo a maggio giochi con l’Italia Under 16 (e segni anche un gol contro la Croazia), mentre da agosto a ottobre con l’Under 17 (e segni un’altra rete contro la Serbia). La maglia azzurra a quell’età come viene percepita?
“Non credo che il significato della Nazionale cambi a seconda della fascia d’età. Indossare la maglia dell’Italia significa rappresentare un Paese intero, che tu lo faccia in Under 16 o con la prima squadra. Almeno io l’ho sempre vista così. Vestire l’azzurro è un onore e ti spinge a dare tutto. Penso che ogni bambino a cui piace il calcio l’abbia sognato almeno una volta nella vita. Mi ricordo ancora il momento in cui venni a sapere della prima convocazione. I dirigenti del Cagliari mi si avvicinarono a fine allenamento e mi dissero che dovevo fare le valigie per andare al raduno dell’Italia. Io ovviamente pensavo che mi stessero prendendo in giro, ma dalla loro insistenza cominciai a capire piano piano che era tutto vero [ride]. Non ci credevo”.
Infine, a novembre, a 16 anni, 10 mesi e 11 giorni diventi il 4° giocatore più giovane nella storia del Cagliari (il 3° se consideriamo solo gli italiani) ad esordire in prima squadra. È vero che tu sei nato a Sassari, ma cosa significa per un sardo arrivare fino alla prima squadra del Cagliari?
“Ti rispondo così: prova a chiedere a qualsiasi bambino sardo, di una qualunque scuola calcio, indipendentemente dalla città o dalla zona dove vive, quale sia il suo sogno più grande. Sono sicuro che ti risponderanno tutti allo stesso modo: «Giocare nel Cagliari». In Sardegna abbiamo tutti un senso di appartenenza alla nostra terra che non ha eguali in Italia. Arrivare ad indossare la maglia rossoblù è un qualcosa che non so descriverti… Non credo nemmeno si possa spiegare. Prima di tutto bisogna sottolineare il fatto che per un ragazzo di 16 anni sembra un film già tutto quello che succede prima di esordire. Andare in trasferta con i grandi, entrare allo stadio, cambiarsi con loro in spogliatoio… Sembra tutto pazzesco. Il momento in cui l’allenatore ha interrotto il mio riscaldamento per dirmi che sarei dovuto entrare ce l’ho impresso nella mia memoria come se fosse ieri: mi tremavano le gambe e avevo la mente completamente vuota. In quegli istanti non riesci a pensare a nulla. Credi che sia tutto un sogno. Poi entri in campo, capisci che sei nella realtà e ti passa la paura; ti senti improvvisamente nel tuo habitat naturale e hai un solo obiettivo: dare il 200%.
Dopo un anno del genere, com’è ovvio che sia, finisci per la prima volta sull’almanacco de La Giovane Italia. Te lo ricordi?
“Certamente. Ti rifaccio lo stesso ragionamento di prima: per un ragazzo che gioca a calcio, finire sul vostro libro è un sogno. O comunque un obiettivo concreto. Avere una pagina sull’almanacco è una delle prime soddisfazioni nella carriera di un giovane calciatore; è un premio ai tuoi sforzi e, allo stesso tempo, un qualcosa che ti spinge a dare ancora di più perché capisci di essere sulla strada giusta. Io mi emozionai molto”.
In quell’edizione parlò di te Massimo Canzi, l’allenatore della Primavera del Cagliari, che senza troppi giri di parole disse: “È semplicemente il più grande talento del nostro settore giovanile”. Non male come investitura…
“Come faccio a commentare queste parole? Mister Canzi mi ha sempre dato tantissima fiducia e mi ha lanciato in Primavera. Da lì poi è partito tutto. Non finirò mai di ringraziarlo”.
Giusto per riepilogare, nell’arco di un anno ti sei tolto le seguenti soddisfazioni: esordio in Primavera, esordio in Nazionale, gol in Nazionale, esordio in prima squadra e presenza sull’almanacco. A livello mentale ed emotivo è stato difficile gestire un’ascesa così rapida?
“Io credo di essere sempre stato un ragazzo abbastanza spensierato. E questo probabilmente è uno degli aspetti del mio carattere che mi ha aiutato di più. Non mi sono mai focalizzato sui traguardi che raggiungevo: pensavo solamente a continuare ad impegnarmi, dimostrando in campo quello che valevo. Come si suol dire: «Testa bassa e pedalare». Ho sempre lavorato in silenzio, cercando di non fare proclami e di non prestare attenzione alle chiacchiere fuori dal terreno di gioco”.
Nel 2017/18 vai in prestito all’Olbia. Alla tua prima stagione nel calcio professionistico fai il titolare e segni anche i tuoi primi gol tra i professionisti, diventando a 18 anni, 2 mesi e 19 giorni il 2° marcatore più giovane nella storia del club e il primo millennial a segnare in Serie C. Ti aspettavi un anno così? Quanto ti ha aiutato nell’ambientamento il fatto di aver già assaggiato il calcio dei grandi nell’esperienza a Cagliari?
“Comincio rispondendo alla seconda domanda. Nell’ultima parte del 2016/17 io in pratica sono stato aggregato alla prima squadra, per cui ero stabilmente con i grandi. Quando sono andato all’Olbia, quindi, sapevo già l’ambiente che avrei trovato nello spogliatoio e in campo. Il calcio professionistico è proprio uno sport diverso rispetto a quello che fai nelle giovanili con i tuoi pari età e non è facile adattarsi subito. Riguardo alla mia stagione, i primi mesi sono stati difficili perché mi sono infortunato in Nazionale e sono stato fuori quasi due mesi. Quando sono rientrato, però, è filato tutto liscio: mi sono ritagliato il mio spazio e ho pure trovato i primi gol. Forse sono arrivati un po’ tardi, dato che ormai eravamo in primavera, ma non posso lamentarmi. È stata una stagione positiva sia a livello personale che di squadra, dato che siamo riusciti a centrare la salvezza. Più di così non potevo chiedere”.
Hai detto che in occasione del tuo esordio tra i grandi non eri riuscito a pensare a niente: eri concentrato solo sul momento e avevi la mente quasi annebbiata. Quando hai segnato il tuo primo gol tra i professionisti, invece, cosa ti è passato per la testa?
“È il contrario rispetto all’esordio: quando segni ti vengono in mente mille cose [ride]. Ripensi al tuo percorso, ai sacrifici che hai fatto, alla tua famiglia che ti ha supportato, alla stagione che stai vivendo e alle annate prima… Insomma, un turbinio di immagini e di emozioni”.
Nel 2018 torni sull’almanacco e, anche in questo caso, vorrei leggerti il “Dicono di lui” di Michele Filippi, secondo allenatore dell’Olbia: «Roberto è un ragazzo serio, tranquillo e riflessivo. Ha capito che il talento va abbinato a lavoro e determinazione. Possiede genialità, grandi doti tecniche e la capacità di osservare i più esperti per imparare il comportamento da tenere. In partita dimostra la serenità e la spensieratezza di chi si sente a casa». Come commenti?
“Sono parole fantastiche. Me le ricordo benissimo. Risentirle adesso mi fa lo stesso effetto di quando le avevo lette per la prima volta. Non posso non emozionarmi perché è riuscito a parlare di me non solo dal punto di vista del calciatore, ma anche della persona. Mi ha descritto benissimo. Lo ringrazia all’epoca e lo rifaccio adesso. Per me e per la mia crescita è stato importantissimo. Ci eravamo già conosciuti a Cagliari, dove mi allenò per 3 mesi in Under 17 prima che io fossi aggregato all’Under 19, e fui contento di ritrovarlo all’Olbia. Cerca di aiutare i giovani in qualsiasi modo, sia in campo che fuori, e sa scegliere quando usare il bastone e quando usare la carota. Ti assicuro che quando sbagliavi, te lo faceva capire bene [ride]. Per me, soprattutto nel periodo ad Olbia, è stato come un padre. Mi ha supportato moltissimo”.
Ad Olbia, oltre a Michele Filippi, hai stretto un legame molto forte con altre due persone: Francesco Pisano e Daniele Ragatzu. Quanto è stato importante avere al tuo fianco due calciatori che non solo avevano giocato in Serie A, ma che – come te – sono nati e cresciuti in Sardegna?
“Sono stati fondamentali per la mia crescita. Pisano, vista la differenza di età, è stato più un padre, un po’ come Filippi. È una figura importantissima per il calcio sardo e da lui non si può che imparare, sia a livello tecnico che di comportamento. Era il capitano della squadra ed è sempre stato una chioccia per i giovani. Con Daniele, invece, ho costruito un rapporto di amicizia molto profondo che continua tuttora. È quasi un fratello maggiore per me. Mi ha aiutato tanto e negli anni abbiamo condiviso moltissime esperienze”.
Il tuo primo biennio all’Olbia coincide con il tuo ultimo biennio in azzurro. Hai giocato con l’Italia dall’Under 16 all’Under 19: c’è un ricordo particolare che ti porti nel cuore dell’esperienza in Nazionale? Una competizione, una partita, un gol…
“Sicuramente l’Europeo con l’Under 17. Giocare una manifestazione così importante con la maglia del tuo Paese credo sia la massima aspirazione di qualsiasi calciatore. Peccato essere usciti ai gironi, ma già partecipare per me è stato un sogno. L’altro ricordo, poi, è il gol alla Serbia nelle qualificazioni… Eravamo in vantaggio 1-0 e la mia fu la rete che chiuse la partita. Un’emozione che non si può descrivere”.
Gli ultimi due anni in Nazionale sono coincisi con gli ultimi due anni sull’almanacco. Sei stato inserito in quattro edizioni consecutive del libro de La Giovane Italia: c’è qualcosa che ti fece particolarmente piacere leggere?
“Ti cito due “Chi ci ricorda”: Francesco Totti e Nicolò Barella. Totti è sempre stato uno dei miei idoli e vedermi accostato a lui fu pazzesco. È un nome a cui nessuno oserebbe mai paragonarsi perché fa parte di quella ridottissima schiera di giocatori irraggiungibili. Per quanto riguarda Barella, invece, per una stagione intera ho fatto gli allenamenti con lui, quindi è un giocatore che ho conosciuto di persona. E poi, ovviamente, è sardo come me, quindi mi sono sempre rivisto in lui”.
Questa estate, dopo anni di prestito, sei diventato un giocatore dell’Olbia a titolo definitivo. L’impressione è che tu abbia trovato la tua seconda casa…
“È vero. Qui mi trovo benissimo da ogni punto di vista: la città, i tifosi, la società, i compagni (con alcuni dei quali ho stretto rapporti quasi di fratellanza)… Come hai detto tu, mi sento a casa. In estate ho anche ricevuto diverse offerte, ma non le ho prese in considerazione: la testa e il cuore sono ad Olbia. E poi, per riprendere un concetto che ti ho già accennato, il legame che ho con la mia terra è difficile da spiegare; per un sardo lasciare la Sardegna è molto più complicato che per un qualsiasi altro italiano lasciare la propria regione. Ovviamente questo discorso non va estremizzato: se dovesse arrivare la chiamata da parte di un club di una categoria superiore, con un progetto ambizioso e un ambiente stimolante, sicuramente la valuterei. Ad oggi, però, questa possibilità non si è mai presentata e io mi tengo stretta la Sardegna”.
Ormai non sei più un ragazzo aggregato ai grandi, ma un giocatore che ha accumulato un po’ di esperienza e che, anno dopo anno, vede arrivare nuovi giovani in prima squadra. Ti chiedo come ti rapporti con loro e, visto che ormai non puoi più essere inserito nell’almanacco, se c’è qualcuno tra i tuoi compagni di cui dovremmo segnarci il nome.
“È vero, adesso si è ribaltata la situazione [ride]: sono io che devo dare una mano ai ragazzi di 17-18 anni che vengono aggregati alla prima squadra. E questa responsabilità mi fa molto piacere. Nei loro confronti cerco di comportarmi nello stesso modo in cui si comportarono con me Pisano, Ragatzu e gli altri giocatori più esperti. Per quanto riguarda i nomi, non è facile… Secondo me ci sono diversi giovani forti. I primi che mi vengono in mento sono Lorenzo Boganini e Fabio Occhioni, che hanno tutte le qualità per fare bene”.
Nel corso dei tuoi anni all’Olbia avete lottato per obiettivi di volta in volta diversi. Adesso qual è il vostro traguardo? È lo stesso che vi eravate prefissati a inizio anno o avete dovuto correggere il tiro strada facendo?
“Ai nastri di partenza eravamo ambiziosi perché la scorsa stagione abbiamo fatto i playoff e quest’anno volevamo ripeterci. Nel corso del campionato, però, le cose non sono andate come speravamo e adesso dobbiamo prima di tutto raggiungere la salvezza. Poi vedremo cosa succederà. Ci sono ancora 18 punti a disposizione e noi faremo di tutto per portarne a casa il più possibile”.
E i tuoi obiettivi personali quali sono?
“Beh innanzitutto, voltandomi indietro, ammetto che quest’anno avrei potuto segnare di più. Se guardo al futuro, invece, non ho dubbi: a breve termine l’obiettivo è aiutare l’Olbia a mantenere la categoria e a lungo termine salire di categoria, arrivando in Serie A o in Serie B. Credo che per raggiungere questo sogno – che poi è quello che ho fin da bambino – non sia mai troppo tardi”.
Lasciamo correre la fantasia, tanto non costa niente. Sfidare il Cagliari con la maglia dell’Olbia, in una categoria superiore rispetto alla Serie C: è questo il traguardo definitivo?
“[Ride] Eh, questo non si può considerare un obiettivo; non rientra nemmeno nella categoria dei sogni. Sarebbe qualcosa di incredibile, sia per me che per tutto il calcio sardo”.
L’intervista non può che finire così. Con una risposta in cui c’è condensato tutto Roberto Biancu. La sua storia, le sue passioni, i suoi traguardi. Sangue sardo e tanto calcio nelle vene.