Eravamo LGI: Fabio Della Giovanna
Tre settimane fa, in occasione dell’intervista a Nicola Dalmonte, abbiamo descritto l’appassionante classifica del Girone A di Serie C. Oggi, alla ripresa dei campionati dopo la sosta, quando ci si appresta ad entrare nella fase decisiva della stagione, la situazione rimane la stessa: 5 squadre concentrate in pochissimi punti. Una di queste è la Pro Sesto, che tra metà ottobre e metà dicembre ha raccolto 8 vittorie e 3 pareggi in 11 partite, sorprendendo tutte le concorrenti e attestandosi nel gruppo al vertice. A inizio stagione nemmeno il più ottimista all’interno della società si sarebbe aspettato un ruolino di marcia del genere, ma poco importa: ormai i biancoblù ci hanno preso gusto e non vogliono smettere di stupire, con la leggerezza di chi non ha niente da perdere e la consapevolezza delle proprie potenzialità che i risultati del girone di andata hanno contribuito a costruire. Coinvolti dall’entusiasmo di tutto l’ambiente e affascinati dalla favola che stanno scrivendo, ne abbiamo approfittato per intervistare Fabio Della Giovanna, cresciuto nell’Inter, presente per 5 anni consecutivi sull’almanacco LGI e impegnato nella sua seconda stagione alla Pro Sesto.
Ciao Fabio e complimenti per la stagione che state disputando. La prima domanda che viene spontaneo fare è: vi aspettavate un campionato del genere?
“No, impossibile. Nessuno poteva immaginarsi di essere al primo posto alla fine del girone di andata o di ritrovarsi a gennaio a 3 punti dalla vetta. Potevamo sicuramente aspettarci di fare meglio dell’anno scorso – anche perché sarebbe stato complicato fare peggio – ma da qui a pensare di occupare questa posizione a gennaio… Dai, siamo realisti: era una prospettiva lontana anni luce da ogni previsione razionale. Pensavamo di poter fare un buon campionato e speravamo di arrivare il prima possibile alla salvezza, che è l’obiettivo che ci eravamo posti. Ovvio che con il passare delle partite e con i punti accumulati, continuando a lavorare duro in settimana e affrontando ogni gara con l’intenzione di strappare più punti possibili (proprio perché il nostro obiettivo era mantenere la categoria evitando i playout) ci siamo ritrovati qui e ora ce la mettiamo tutta. Con questo non voglio dire che i risultati ottenuti fino ad ora sono stati casuali eh: credo infatti che la Pro Sesto abbia messo in mostra giocatori di valore, organizzazione (sia dentro che fuori dal campo) e compattezza. Abbiamo totalizzato 35 punti in 19 partite e ce la siamo giocata sempre con tutti (compresi squadroni che in estate hanno speso tantissimo e che sulla carta non dovevano c’entrare assolutamente nulla con noi), per cui c’è un motivo se siamo dove siamo. Noi abbiamo sempre dato tutto e lasciamo che il campo sia l’unico giudice”.
Guardando qualche dato, emerge con chiarezza come alcune squadre abbiano una difesa di ferro e altre un attacco travolgente; voi invece siete molto equilibrati. È vero che le statistiche si prestano sempre a interpretazioni diverse, ma a mio parere ne emerge soprattutto una: siete una squadra compatta, che non molla un centimetro e che lotta con il coltello tra i denti contro tutti.
“Il nostro atteggiamento è la logica conseguenza di quello che ti spiegavo prima. Se giochi un campionato con la consapevolezza che il tuo obiettivo è salvarti, c’è una sola cosa che non puoi permetterti di fare: mollare; se ti lasci andare un attimo, retrocedi. E te lo dice uno che negli ultimi 4 anni ha sempre giocato i playout. Giocare in una squadra che deve mantenere la categoria significa affrontare ogni singola partita come una battaglia, con l’obiettivo di strappare anche solo un punto. E alla Pro Sesto ne siamo tutti consapevoli, sia perché c’è gente con più esperienza di me – che ha vissuto diverse volte situazioni simili – sia perché ci ricordiamo com’è andata la passata stagione e la fatica che abbiamo fatto per non retrocedere. Partire fin da subito con la mentalità giusta ci ha aiutato e il resto l’ha fatto il gruppo, che reputo spettacolare sotto ogni punto di vista: un mix perfetto di giovani (che si sono calati immediatamente nella nostra realtà con l’atteggiamento migliore possibile), anziani e quelli come me, che definisco “né carne né pesce” perché sono una sorta di via di mezzo. I risultati non sono arrivati subito, ma dal punto di vista della fame e dell’impegno le prestazioni ci sono sempre state fin dalla 1ª giornata”.
Ora lasciamo da parte il presente e riavvolgiamo il nastro. Cominci a giocare nel Mulazzano – il paese dove sei nato – e a 7 anni passi subito all’Inter. Un inizio niente male…
“Sì, penso di essere rimasto nei Primi Calci del Mulazzano per 6 mesi e poi ho fatto un provino con l’Inter. Eravamo tantissimi e mi ricordo che dei bambini nati nel 1997 avevano preso me, Dimarco, Bonazzoli e Cassani (un ragazzo che adesso ha smesso). In realtà non ero convintissimo di cambiare squadra, ma solo perché ero davvero piccolo. Non sapevo nemmeno cosa stavo facendo [ride]. Però da lì è partito tutto: ho cominciato la mia avventura all’Inter nei Pulcini e sono rimasto una vita”.
Il tuo rapporto con i colori nerazzurri è particolare: in teoria sei di fede milanista, ma hai l’Inter nel DNA, dato che Giorgio Della Giovanna (un tuo lontano parente) ha militato nell’Inter. È vero?
“Eh sì. La mia famiglia è sempre stata di fede milanista: mio padre, i miei zii… Essendo cresciuto con questi colori e questo tifo intorno, come puoi immaginare, non è che avessi molta scelta: sono diventato milanista. Questo però non ha mai influenzato la mia carriera, anche perché quando ho iniziato a capire qualcosa di calcio ero già all’Inter da anni [ride]. E poi non sono mai stato un tifoso particolarmente appassionato. Ovviamente amo il calcio, ma al di fuori dei miei allenamenti e delle mie partite non l’ho mai seguito così tanto, per cui anche il tifo per il Milan non ha rivestito un ruolo significativo nella mia vita. Di conseguenza, giocare per l’Inter – anche durante i derby – non è mai stato un problema. Per quanto riguarda Giorgio, non era un mio parente vicino: si trattava del cugino di mio nonno o del mio bisnonno. Però comunque nell’albero genealogico risulta, quindi diciamo che vale. Ha giocato nell’Inter dei primi anni ’60 ed è stato allenato da Herrera”.
Cominci a giocare da terzino sinistro e poi vieni spostato in centro da Michele Ravera. Intuizione fondamentale?
“Sì, decisamente. Quando ero piccolo avevo un po’ di gamba, adesso invece un disastro [ride]. Scherzi a parte, ho iniziato effettivamente come terzino sinistro, ma col passare degli anni si sono resi conto che tra me e un certo Dimarco forse era meglio schierare lui sulla fascia, dato che andava leggermente più forte. Hanno provato quindi a spostarmi centrale e non ho più cambiato ruolo”.
Il 2011/12 è la stagione della tua prima presenza sull’almanacco ed è un anno da incorniciare: vincete il Trofeo Scirea e la Nike Cup, arrivate primi nel girone di regular season, vi qualificate alle finali nazionali e vincete lo Scudetto (che sollevi da capitano). Che ricordi hai?
“Avevamo una squadra senza senso. Non so per quale congiunzione astrale, ma il gruppo dei ’97 era clamoroso, tant’è che abbiamo vinto tutti i campionati fino alla Primavera (senza perdere un derby) e quasi tutti i tornei a cui abbiamo partecipato. Eravamo una corazzata. E a ulteriore testimonianza di quello che ti dico, basti guardare quanti ragazzi del mio gruppo sono arrivati ad alto livello: tantissimi. In Primavera le cose sono cambiate un pochino, ma quello non lo considero più settore giovanile. Senza considerare il fatto che all’epoca la Primavera era un campionato di altissimo livello. Tra i ’97 dell’Inter quello che è finito più in basso probabilmente sono io [ride]. Diversi miei ex compagni adesso giocano in Serie A e B, altri sono andati all’estero, ma comunque militano in leghe professionistiche. E anche spostando lo sguardo alle altre squadre, la situazione è la stessa. Ti faccio l’esempio del Palermo. Per carità, società seria e dalla grande tradizione, ma se ti dovessi chiedere di nominare una Primavera forte non diresti mai i rosanero, giusto? Ecco, in quegli anni era devastante. C’erano Giuseppe Pezzella [oggi in Serie A al Lecce], Antonino La Gumina [oggi in Serie B al Benevento], Simone Lo Faso [oggi in Serie D al Livorno, ma con un passato in Serie A]… Per non parlare delle big. I giocatori di quella Juventus oggi sono tutti in Serie A e B: Audero [oggi in Serie A alla Sampdoria], Romagna [oggi in Serie A al Sassuolo], Kastanos [oggi in Serie A alla Salernitana], Favilli [oggi in Serie B alla Ternana], Lirola [oggi nella Liga all’Elche]. Ti rendi conto? In quel periodo tutte le società avevano squadre di altissimo livello e il campionato Primavera era veramente tosto”.
Ti avrei fatto questa domanda più avanti, ma visto che siamo in argomento colgo la palla al balzo. Credi che il progressivo calo del Campionato Primavera – sia dal punto di vista tecnico che di investimenti – sia uno dei problemi più urgenti da risolvere per il calcio italiano e, più nello specifico, per far sì che i giovani arrivino più pronti al mondo delle prime squadre?
“Eh, bella domanda. Una soluzione al “problema giovani” non ce l’ho. Parlando però con compagni e addetti ai lavori posso dirti che siamo tutti d’accordo su un aspetto: così com’è stato fatto in altri paesi, la creazione di seconde squadre che possano competere in un campionato professionistico aiuterebbe molto. I ragazzi avrebbero modo di fare esperienza e, allo stesso tempo, le società potrebbero contare su una buona visibilità (con conseguenti entrate economiche), garantita secondo me dal fatto che la gente è interessata nel vedere all’opera i giovani di squadre blasonate (soprattutto se impegnati in una categoria di livello). Si potrebbe anche tornare alla vecchia suddivisione tra C1 e C2: in C2 si inseriscono le Under 23 e le società che dal punto di vista dei costi e dell’organico fanno fatica a competere in una C “unificata”; in C1 si inseriscono le squadre che per rosa e budget ambiscono ogni anno a salire in B, dando vita così ad un campionato ancora più difficile e competitivo. Questa ovviamente è solo una mia idea; so benissimo che ci sono molte altre dinamiche e non è facile trovare una soluzione che accontenti tutti. In generale, comunque, io ho sempre avuto una convinzione: se un giovane è bravo, gioca. Indipendentemente dalla categoria”.
Il tuo ultimo anno nel settore giovanile è il 2015/16. Giochi in Primavera e, da capitano, sollevi la Coppa Italia, conquistata battendo la Juventus all’ultimo atto. Non penso ci potesse essere un finale migliore per la tua avventura all’Inter…
“La cosa fantastica non fu semplicemente vincere la Coppa, ma il percorso che ci portò alla vittoria: battemmo la Roma, il Milan e la Juventus. Tra l’altro contro la Juve vincemmo sia all’andata in casa loro, giocata allo Juventus Stadium, che al ritorno in casa nostra. Una doppia finale incredibile, con una cornice di pubblico strepitosa e dei ritmi da Serie B. E poi alzare la coppa a San Siro… Da brividi”.
Nello stesso anno, all’ultima giornata di campionato, debutti in Serie A. Ci racconti quella sera?
“Me lo ricordo come se fosse ieri. Sassuolo-Inter 3-1. Allenatore Mancini. Noi costretti a giocare in 10 dopo l’espulsione di Felipe Melo. Mi stavo scaldando insieme ad alcuni giocatori della prima squadra e tre miei compagni della Primavera: Miangue, Zonta e Radu (che esordì come me a fine partita). Ad un certo punto il Team Manager mi indicò e io mi guardai alle spalle, perché davo per scontato che stesse chiamando qualcuno dietro di me. In realtà Mancini aveva deciso di mettere proprio me. Da lì scollegai il cervello. Mi hanno anche raccontato che proprio il Team Manager, per caricarmi, mi diede degli schiaffi sul coppino che io a malapena sentii, ma che in realtà – a detta di tutti – erano davvero delle manate fortissime [ride]. Giocai gli ultimi 9’ e quando tornai negli spogliatoi mi sembrò di aver giocato 2 partite consecutive. Avevo un fiatone allucinante e non avevo ancora razionalizzato. Mi ricordo però di aver guardato verso la tribuna e aver visto i miei genitori commuoversi. Sono emozioni difficili da spiegare: capitano una volta nella vita e te le tieni strette. Del resto si tratta della realizzazione del sogno che inseguivo fin da bambino”.
Finito il tuo percorso con l’Inter, inizia quello con i grandi. Ti faccio due domande: com’è stato il salto a livello di calcio giocato e com’è stato l’impatto a livello di spogliatoio (dato che nel settore giovanile ci si ritrova sempre con i propri coetanei, con cui si condivide il percorso per diversi anni, mentre una prima squadra è estremamente eterogenea dal punto di vista di età ed esperienze).
“Comincio dalla seconda domanda. La mia prima avventura ufficiale nel calcio dei grandi è stata in Serie B a Terni ed è stata tosta. Un po’ proprio per il motivo che dicevi tu: venivo da 12 anni nei quali avevo condiviso lo spogliatoio sempre con gli stessi compagni, perché l’ossatura della squadra era composta dai ragazzi che – come me – hanno iniziato il proprio percorso all’Inter fin dai Pulcini. Adattarsi ad una realtà diversa, quindi, non è stato semplice. A questo si sono aggiunte le difficoltà legate all’ambiente e alle pressioni che schiacciavano squadra e società. Giusto per fare un esempio: i tifosi ci hanno occupato il campo per un mese (costringendoci a fare il ritiro a Roma) e diverse volte venivano sotto casa. Infine, come se non bastasse, alla mia seconda presenza mi sono rotto i legamenti della caviglia e ci ho messo tantissimo a recuperare. Quell’anno ho capito che quando ci si trova catapultati nel calcio dei grandi bisogna crescere in fretta e, soprattutto, imparare a leggere comportamenti, atteggiamenti e stati d’animo dei più esperti, perché un domani ti ritroverai al loro posto e dovrai essere in grado di gestire le diverse situazioni. Prova però a metterti nei miei panni e immagina lo shock: arrivavo da anni in cui ero stato il capitano, avevo vinto tutto a livello giovanile, ero stato aggregato alla prima squadra e avevo pure esordito in Serie A. È normale che in quel momento, anche inconsciamente, ti monti un po’ la testa. Di conseguenza l’impatto con la nuova realtà è stato forte: dovevo competere ad un livello molto più alto, con obiettivi radicalmente diversi e più pressioni esterne. E non potevo pensare di ricevere le stesse attenzioni e lo stesso trattamento di quando facevo il Campionato Primavera e mi allenavo in prima squadra. Ho capito subito che c’erano solo due modi per adattarsi e non farsi schiacciare: piedi per terra e lavorare sodo. Per quanto riguarda la prima domanda, a livello di calcio giocato c’è un abisso: la qualità e la fisicità sono maggiori, i tempi di gioco e di scelta sono minori. La differenza che si sente di più, però, è un’altra: la lettura delle diverse fasi della partita: in Primavera vai a 100 all’ora dall’inizio alla fine, senza chiederti quando sia più opportuno premere sull’acceleratore e quando invece respirare; nel calcio dei grandi devi gestirti”.
Parliamo ora della tua presenza sull’almanacco. Come abbiamo anticipato, vieni inserito per la prima volta nel 2012 e ci rimani per i 4 anni successivi. Ti ricordi l’emozione del “debutto”?
“Innanzitutto ti dico che mio padre ha tutti gli almanacchi e ne va fierissimo. Li mostra sempre al mio cuginetto (che ha iniziato da poco a giocare a calcio) e ai suoi amichetti per far vedere loro chi sono e per farli sognare un po’. Detto questo, credo che l’almanacco sia una bellissima iniziativa e sono sempre stato strafelice di esserci. Quando ero all’Inter, ogni volta che usciva andavamo subito a sfogliarlo e a vedere chi fosse stato inserito dei ragazzi che conoscevamo. Ancora adesso ogni tanto lo prendo e, dopo aver letto qualche nome, vado a vedere che fine hanno fatto alcuni dei giocatori con cui ho perso i contatti”.
C’è qualcosa che ti fece particolarmente piacere leggere o che ti ricordi delle tue pagine?
“Mi ricordo che parlarono di me Cerrone e Vecchi e poi, se non sbaglio, che venni paragonato a Ranocchia. Però ti dico, indipendentemente da cosa ci fosse scritto, a me bastava vedere la mia pagina ed ero felice così”.
A proposito di felicità, concludiamo con una domanda che secondo me vi è strettamente connessa. Traguardi da raggiungere e sogni nel cassetto?
“A breve termine ne ho due: uno di squadra e uno individuale. A livello collettivo, come ti dicevo, vogliamo mantenere la categoria; a livello personale voglio trovare continuità, perché appena gioco un po’ di partite di fila mi faccio male. È da tempo che mi pongo questo obiettivo ed è da tempo che non arriva. A lungo termine, invece, vorrei lasciare la Serie C e salire di categoria. So che non è facile e che per riuscirci serviranno altri step intermedi, ma il sogno è quello. Per quanto riguarda la vita extra campo, infine, voglio completare il percorso di studi. Sono iscritto alla facoltà di Scienze Motorie e voglio assolutamente laurearmi. Purtroppo sto andando un po’ a rilento, ma è un traguardo che mi sono prefissato. Anche perché sono consapevole che la vita da calciatore prima o poi finirà e avere una laurea nel momento in cui deciderò di appendere gli scarpini al chiodo sarà fondamentale per potermi reinventare”.
Per il momento, comunque, non c’è bisogno di reinventarsi. La carriera di Fabio Della Giovanna è fortunatamente lontana dalla conclusione e di obiettivi da raggiungere sul campo ce ne sono parecchi. Il primo non può che essere con la maglia della Pro Sesto: raggiungere al più presto la quota salvezza e mantenere la categoria. Anche se guardando la classifica, probabilmente, nel 2023 è lecito guardare ad altri orizzonti e sognare più in grande. Con la leggerezza di chi non ha niente da perdere e la consapevolezza delle proprie potenzialità.