Eravamo LGI: Eric Lanini
Quella dell'anno scorso sembrava una stagione da favola. La classica annata nella quale funziona tutto a meraviglia. L'ambientamento con il gruppo, il legame con tifosi e città, gol e assist a ripetizione e una marcia verso il primo posto che sembra inarrestabile. Gli 86 punti in classifica, però, non bastano: nel testa a testa durato tutto il campionato sarà il Modena a spuntarla e a centrare la promozione diretta. La Reggiana, condannata a passare dai playoff, si incaglierà ai quarti contro la Feralpisalò. È una delusione cocente. Un finale amarissimo. Proprio in quel momento, però, Eric Lanini decide che l'avventura non può terminare così. Non con un sogno sfumato sul più bello. Dopotutto, le carte in regola per riprovare il salto di categoria la stagione successiva c'erano. E poi quel rapporto con la piazza di Reggio... Come si poteva lasciare quella squadra e quella città senza aver prima raggiunto un traguardo storico? E così il prestito viene rinnovato. Il centravanti cresciuto nella Juve (e presente in 3 edizioni dell'almanacco LGI) rimane in granata, non smette di segnare e settimana scorsa, dopo un campionato dominato, festeggia insieme ai suoi compagni la promozione in B con una giornata di anticipo. Noi non potevamo non sfruttare l'occasione e così abbiamo deciso di intervistarlo.
Ciao Eric. Innanzitutto complimenti per lo storico traguardo che avete appena raggiunto. Vi aspettavate un risultato del genere? Era questo l’obiettivo che vi eravate prefissati?
“Assolutamente sì. Già l’anno scorso l’obiettivo era quello di vincere il campionato ed è stato uno dei motivi che mi aveva spinto a venire a Reggio. Avevamo una squadra fortissima, siamo stati primi praticamente tutto l’anno, facendo un testa a testa incredibile con il Modena, abbiamo totalizzato 86 punti, ma a pochi metri del traguardo ci siamo fatti superare. Io ero in prestito e al termine della stagione ho ricevuto diverse proposte, anche molto allettanti. La mia priorità, però, era una sola: rimanere qui e centrare la promozione. Un po’ per motivazioni prettamente sportive: dovevamo prenderci la rivincita dopo la promozione sfumata in quel modo. E considerando che l’ossatura della squadra sarebbe rimasta la stessa, secondo me avevamo tutte le potenzialità per salire in Serie B, una categoria che per tanti motivi erano anni che sfioravo, ma in cui non riuscivo a tornare. Un po’ per motivazioni personali: a Reggio Emilia avevo instaurato un rapporto stupendo con tutti e mi sentivo come a casa. La città e la tifoseria mi avevano accolto in modo straordinario e mi avevano sempre fatto sentire il loro affetto, la società aveva creduto in me fin dal primo istante, con il mister mi trovavo benissimo, il gruppo squadra era splendido e tutti mi avevano supportato (e sopportato) in ogni momento… Insomma, era l’ambiente ideale, stavo bene e lo dimostravo anche in campo. Tant’è che l’anno scorso realizzai 15 gol e 5 assist. Facendo tutte queste considerazioni, ho voluto fortemente rimanere. Anche perché, arrivato a 28 anni, dopo tantissime stagioni in prestito da una parte all’altra dell’Italia, trovare stabilità in un posto dove mi sentissi a mio agio era uno dei miei obiettivi primari. Fortunatamente la Reggiana e il Parma [la società che attualmente detiene il cartellino di Lanini] hanno trovato un accordo, sono rimasto ed è andato tutto alla grande. Tutti ci meritavamo questo traguardo: noi giocatori, il club e soprattutto la città”.
A livello collettivo questa stagione non poteva andare meglio di così. Dal punto di vista personale che bilancio fai delle tue prestazioni?
“Se devo essere sincero, considerando quello che ho fatto in Serie C negli ultimi anni, il bilancio non è eccezionale a livello di numeri. Per il momento sono fermo a 9 gol e manca una sola gara alla fine. Spero di raggiungere la doppia cifra e continuare il trend delle ultime stagioni. Nel 2018/19 ho fatto 18 gol, nel 2019/20 il campionato si è interrotto a causa del Covid, ma ero arrivato a 6 gol a gennaio, nel 2020/21 ne ho segnati 11 solo nel girone di ritorno e la scorsa stagione 15. Quest’anno i numeri sono un po’ al di sotto delle mie aspettative e di quelle che credo siano le mie potenzialità. Nonostante tutto, però, rimangono in linea con quelli dei miei compagni di reparto. All’Imolese, quando ne feci 18, anche De Marchi arrivò in doppia cifra; alla Juventus Under 23, nell’anno della pandemia, Zanimacchia segnò le mie stesse reti e Dany Mota ne realizzò due in più; la scorsa stagione io ne misi a segno 15 e Zamparo 18. Quest’anno, invece, come attaccanti abbiamo segnato tutti meno del solito. Basti pensare che fino a due settimane fa ero il capocannoniere della squadra. C’è comunque ancora una partita da giocare e spero di segnare per arrivare almeno a 10. Poi dall’anno prossimo l’obiettivo sarà fare meglio anche se in un campionato difficile come la Serie B”.
Adesso riavvolgiamo il nastro. Nasci e cresci a Torino, inizi a giocare in una polisportiva della tua città e a 13 anni passi alla Juventus. Un bel salto a quell’età. Come l’hai vissuto?
“Quando sei un ragazzino vivi il calcio come puro divertimento. Ovviamente ero consapevole del blasone della Juventus, ma non sentivo il peso della maglia. A 13 anni giochi a calcio perché è la tua passione, senza pensare tanto al club dove sei, alla sua storia o al suo palmares. Stagione dopo stagione e riconferma dopo riconferma iniziai a rendermi conto che, forse, avevo qualità importanti. Anche se quello che mi fece cominciare a capire la realtà in cui ero, furono gli avversari: quando smisi di giocare contro gli oratori e le società dilettantistiche dei campionati regionali e iniziai a sfidare Milan, Inter, Atalanta e tutti gli altri club professionistici nei campionati nazionali, mi resi conto che le cose si stavano facendo serie”.
Nel 2011 vieni inserito per la prima volta sull’almanacco de La Giovane Italia. Ti ricordi il momento in cui te lo comunicarono?
“Sì, me lo ricordo. Sai, a quell’età si tratta delle prime soddisfazioni. Quando leggi per la prima volta un articolo di giornale in cui parlano di te, quando vedi il video di un tuo gol o di una tua partita… Sapere di essere sull’almanacco fu un’emozione incredibile. Pensai subito: «Questo libro lo conserverò per sempre». E infatti è andata così. Ce l’ho ancora a casa”.
In ogni almanacco c’è il paragrafo “Dicono di lui”. Nell’edizione del 2011 parlò di te Pessotto e raccontò un aneddoto particolare. Te lo ricordi?
“Sarà stato quello con Nedved o con Conte…”.
No, te lo leggo: «Era una partitella degli Allievi. Lui riceve palla sulla fascia e si accentra; quando arriva al limite dell’area, finta di calciare forte e scava un pallonetto che lascia seduto il portiere. Io un gol così l'ho visto fare a pochi. Tantomeno a un ragazzino…». Per avere successo come calciatore, si sa, le doti tecniche o fisiche a volte non bastano; serve anche qualcuno che le noti. Ci sono quindi dei momenti che possono rivelarsi autentiche sliding doors; quella giocata, a posteriori, anche se militavi nella Juve già da qualche anno, fu un po’ il tuo biglietto da visita?
“In parte sì e in parte no. Nel senso che nelle giovanili (e, più tardi, anche nei professionisti) non ho avuto una crescita lineare, ma un po’ di alti e bassi, per cui è difficile individuare un momento da cui è cominciata la mia ascesa. È vero però che, soprattutto da giovane, la dote per cui spiccavo maggiormente era l’estro; spesso (e in modo totalmente istintivo) facevo giocate che si vedono raramente nei campionati giovanili. Prendendo ad esempio quella che racconta Pessotto, è difficile che un ragazzo di 16 anni arrivi a pensare ad una soluzione del genere. Io invece le tentavo di frequente e questa mia caratteristica emerse molto presto”.
Hai accennato a due aneddoti con protagonisti Nedved e Conte. Ora vogliamo saperli…
“[Ride]. Intorno ai 16-17 anni iniziarono a chiamarmi per fare gli allenamenti con i grandi. All’epoca l’allenatore era Conte e in dirigenza c’era Nedved. Un giorno facemmo un’esercitazione sul tiro in porta, che è sempre stato uno dei miei punti di forza, e io segnai tre o quattro gol consecutivi ai portieri della prima squadra. Nedved, che in quel momento stava guardando l’allenamento, chiamò lo staff della Primavera e disse: «Ma che ragazzo ci avete mandato?». E la risposta che ricevette fu una frase del tipo: «È Lanini. Ha delle doti incredibili, lo sappiamo bene. Se usasse la testa come usa i piedi…». E con Conte successe la stessa cosa. Al termine di uno dei miei primi allenamenti, venne da me e disse: «Sappi che alla tua prossima partita hai una visita già prenotata». Io mi girai abbastanza intimidito verso Carrera, con cui avevo maggiore confidenza perché faceva un po’ da intermediario tra i giocatori della prima squadra e i giovani, e lo guardai come per dire: «Cosa devo rispondergli?». Chiesi a Conte cosa intendesse e lui mi disse: «Mi parlano tutti benissimo di te. So di cosa sei capace. Però voglio scoprire se le tue qualità tecniche vanno di pari passo con quelle della parte superiore» (e si indicò la testa). Da questi due aneddoti può sembrare che io fossi un ragazzo sopra le righe a livello comportamentale; in realtà sono sempre stato educato e rispettoso. Quello che intendevano i miei allenatori è che ero un po’ fuori dagli schemi. E poi avevo un carattere difficile: ero testardo, un po’ permaloso… Ti faccio un esempio. Se non giocavo la domenica, spesso reagivo male. Non nel senso che spaccassi qualcosa o che insultassi qualcuno, eh. Però, come spesso accade ai ragazzini talentuosi, credevo di essere più bravo degli altri e quindi trovavo ingiusto rimanere in panchina. E quindi poi andava a finire che durante la settimana mi allenavo male, non davo il 100%... Insomma, peggioravo la situazione. Con gli anni ho capito i miei errori e, soprattutto, che essere un professionista richiede determinati comportamenti e atteggiamenti”.
Come hai vissuto il fatto che lo staff parlasse di te sempre nello stesso modo: «È bravo, ma…»?
“È difficile rispondere a questa domanda. Io penso che l’estrosità di un giocatore, sia a livello tecnico che caratteriale, soprattutto quando è giovane, non sia un difetto, ma un pregio da coltivare. A patto ovviamente che non sfoci in comportamenti irrispettosi nei confronti degli allenatori o dei compagni. Non ci si può aspettare che tutti i giovani siano dei soldatini. Bisogna cercare di capirli e di metterli nelle condizioni migliori affinché esprimano le proprie doti. Poi ripeto, nel caso in cui non rispettino le regole è giusto rimetterli nei binari, ma penso sia sbagliato tarpare loro le ali. Il rischio è ingabbiarne la fantasia. E infatti adesso il calcio italiano soffre perché non ci sono giocatori di talento. Ma è normale. Perché devo riprendere un bambino se sbaglia un passaggio di tacco, mentre se lo sbaglia di piatto va bene? Almeno nei primi anni lasciamoli giocare, provare e sbagliare. Ed è un ragionamento che non vale solo nei Pulcini, eh. Lo faccio anch’io quando mi ritrovo ad avere a che fare con dei ragazzi che vengono promossi in prima squadra. A meno che non manchino di rispetto a qualcuno o si dimostrino disinteressati alla causa, io credo che vadano stimolati e supportati i giocatori che hanno talento, in alcuni casi anche chiudendo un occhio se corrono poco in fase di non possesso o se non spiccano per spirito di sacrificio. Basta che abbiano sani principi e che si sappiano calare nel gruppo”.
A proposito di questo discorso, credo che il “Dicono di lui” realizzato da Marco Baroni (il tuo mister in Primavera) nella seconda edizione dell’almanacco sia particolarmente significativo. Oltre a parlare del vostro rapporto, infatti, penso riassuma perfettamente l’importanza di trovare la giusta chiave per rapportarsi con i ragazzi del vivaio. Lui disse: «Eric è il prototipo del giocatore moderno. A tratti, però, fa ancora un calcio suo. Lavora poco senza palla e alterna giocate che rubano l’occhio, ma che sono fini a se stesse, a giocate più efficaci. In prospettiva gli va fatto capire che anche le giocate semplici possono essere utili e che il dribbling non è solo estetica, ma anche pratica. Eric è la mia scommessa: lavorarci non comporta mezze misure. Ti stimola e ti fa arrabbiare. Ma so che può fare grandi cose».
“Mi ricordo benissimo queste parole e credo descrivano alla perfezione che tipo di giocatore (e che tipo di ragazzo) fossi a 17 anni. In campo funzionavo ad intermittenza: a volte mi accendevo, altre ero spento; a volte tiravo fuori dal cilindro una giocata decisiva, ma poi non aiutavo la squadra in fase di non possesso. Avere Baroni come allenatore in Primavera è stato importante. Abbiamo costruito un rapporto splendido, è stato in grado di capirmi e di aiutarmi in una fase decisiva della mia crescita calcistica. Perché io credo che la Primavera sia uno snodo cruciale nella carriera di un ragazzo: è il momento di passaggio tra il settore giovanile e il cosiddetto “calcio vero” e non è facile affrontarla. Avere al proprio fianco una persona che ci comprende sia per ciò che siamo in campo sia a livello personale è decisivo. Io da questo punto di vista sono stato fortunato”.
Torniamo al tuo percorso nel vivaio bianconeri. Nel 2012/13 segni 6 reti in campionato (con una media di quasi un gol ogni due partite), vinci Coppa e Supercoppa Primavera, sei il capocannoniere del Viareggio (nel quale realizzi addirittura una tripletta all’esordio), vieni convocato in prima squadra da Conte per l’amichevole contro il Lecco e segni anche in quell’occasione. È stato l’anno in cui hai capito che potevi fare del calcio un lavoro?
“Sì, sicuramente. Anche perché nei primi anni di settore giovanile (compresa la prima stagione in Primavera) non ero l’attaccante di punta della squadra. Ero uno che a volte giocava e a volte no, entrando spesso a partita in corso. Le prestazioni erano anche buone, ma non avevo mai avuto un exploit realizzativo. Nel 2012/13, invece, riuscii a ritagliarmi più spazio e i miei numeri ebbero un’impennata. Per quanto riguarda la convocazione in prima squadra, è stato un giorno che mi ricorderò per sempre. Ero a scuola, vennero a chiamarmi e mi dissero che nel pomeriggio sarei dovuto andare con i grandi. È stata un’emozione bellissima e ho avuto anche modo di riprovarla ad anni di distanza, apprezzandola ancora di più perché nel frattempo ero maturato e avevo una consapevolezza diversa. È successo nel 2019/20, quando tornai dal prestito all’Imolese per giocare stabilmente con la Juventus Under 23. Lì mi ritrovai ad allenarmi con Cristiano Ronaldo (che come avete giustamente scritto nell’almanacco era uno dei miei idoli), Dybala e tutti i campioni che c’erano a Vinovo in quel momento. Fu un’esperienza pazzesca, che porterò sempre con me”.
Il 2013 è anche il tuo ultimo anno sull’almanacco. Nelle tre edizioni in cui sei stato inserito c’è qualcosa che ti fece particolarmente piacere leggere?
“Mi ricordo il paragone con Laudrup, ma la cosa che ritenevo più interessante era il “Dicono di lui”. Sapere cosa pensassero di te allenatori e dirigenti, che spesso erano stati calciatori di altissimo livello, mi incuriosiva molto. Non vedevo l’ora di leggere le loro considerazioni o i loro consigli”.
Nel 2013/14 lasci Torino per la tua prima avventura nel calcio professionistico. Vai in prestito a Prato e segni cinque gol nelle prime quattro partite da titolare. Sembra che tu non abbia sentito minimamente il passaggio al mondo dei grandi…
“In effetti è stato un salto che non ho patito. Per quanto riguarda l’ambientamento, nonostante fosse la mia prima esperienza lontano da casa, non ci furono problemi; trovai un gruppo splendido, che mi mise subito a mio agio. Eravamo molto uniti e passavamo tanto tempo insieme anche fuori dal campo. A livello di calcio giocato, devo ringraziare enormemente il Prato per aver puntato su di me nonostante l’infortunio, per avermi aspettato e per avermi valorizzato. Quando contattarono la Juve, infatti, io ero out a causa della pubalgia. Loro decisero di prendermi comunque e mi lasciarono il giusto tempo per recuperare, senza affrettare il rientro. Io cominciai a giocare titolare a metà ottobre e realizzai 5 gol nelle prime 4 partite. La stagione andò benissimo e quando rientrai dal prestito la Juventus decise di farmi firmare il primo contratto da professionista”.
L’anno successivo si alza l’asticella: vai di nuovo in prestito, ma stavolta in Serie B. Vesti la maglia della Virtus Entella e anche stavolta il tuo impatto non è male: esordio a Catania e subito in rete.
“Eh già [ride]. Tra l’altro non solo segnai alla prima partita, ma al primo pallone toccato. Mi buttarono nella mischia a gara in corso e feci gol dopo un minuto. Fu incredibile. Rispetto a Prato, però, l’adattamento fu più difficile. Sia perché la Serie B è un campionato molto più tosto, sia perché saltai interamente il primo mese di stagione a causa della Nazionale. Giocai infatti il “Quattro Nazioni” con l’Italia Under 20 e mi aggregai all’Entella a metà settembre. Tant’è che l’esordio che hai citato mi pare sia avvenuto ad ottobre inoltrato. Ho segnato contro il Catania, sono stato lanciato da titolare il weekend successivo e poi ho segnato ancora nella mia terza partita”.
Parlando di Nazionale mi hai fatto un assist. La maglia azzurra è da un lato la tua più grande soddisfazione e dall’altro il tuo più grande rammarico per un percorso che poteva durare di più?
“Sì, diciamo di sì. Sono stato convocato in Under 20 senza che negli anni precedenti avessi mai fatto parte delle Nazionali Under. Pensa che ricevetti la prima chiamata con l’Italia quando ormai non ero più nel settore giovanile, perché ero già a Prato in Serie C. Indossare la maglia azzurra è stato un orgoglio incredibile e, tra le altre cose, mi ha anche consentito di giocare in Serie B la stagione successiva. Nell’estate 2014, infatti, disputai un’amichevole con l’Italia Under 20 e sfidammo proprio la Virtus Entella. Io feci un’ottima partita e sono abbastanza sicuro che quella prestazione giocò un ruolo fondamentale nella loro decisione di chiedermi in prestito”.
Nei tre anni successivi hai cambiato tante maglie: Lanciano, Como, Westerlo, Matera, Vicenza, Padova… In alcuni casi hai giocato tanto, in altri hai trovato meno spazio. Che periodo è stato della tua carriera e della tua vita?
“Sono stati anni un po’ particolari. Sai, per un giovane non è sempre facile giocare in prestito tutte le stagioni. Ci possono essere tantissime variabili, una su tutte i risultati. Ci sono club che anche quando le cose vanno male, non cambiano la propria filosofia e continuano a puntare sui giovani; ce ne sono altri, però, che quando i risultati non arrivano preferiscono dare spazio a giocatori più esperti. Oppure ci sono società che, se proprio devono investire sui ragazzi, preferiscono valorizzare quelli del proprio vivaio e non quelli che arrivano in prestito. La stagione alla Virtus Entella si è conclusa con la retrocessione. L’anno successivo sono rimasto in Serie B e ho giocato prima con il Lanciano, che però è fallito, e poi con il Como, che è retrocesso. Nel 2016/17, dopo tre esperienze consecutive in Serie B, pensavo fosse giunto il momento di affrontare la categoria in una squadra che mi garantisse la titolarità, ma arrivarono solo offerte di club in cui non avrei avuto il posto garantito. Decisi quindi di tentare l’avventura in Belgio, come aveva fatto ad esempio Thiam (anche lui attaccante cresciuto nella Juve), che l’anno prima aveva giocato lì, era stato notato dall’Empoli ed era passato in Serie A; andai al Westerlo, ma dopo un mese esonerarono l’allenatore che mi aveva voluto lì. Nel 2017/18 sono andato a Vicenza, ma anche in quel caso la società è fallita e ho dovuto cambiare squadra a gennaio; ho scelto Padova, che in quel momento era la squadra più forte della Serie C (tant’è che poi ha vinto il campionato), ho segnato un gol decisivo all’esordio, ma mi resi conto che nella rosa c’erano delle gerarchie già definite e io non rientravo nelle prime scelte. Insomma, sono stato costretto a cambiare continuamente aria”.
Il 2017/18 è l’anno della svolta: giochi all’Imolese, totalizzi 41 presenze e 18 gol. Una rinascita?
“Sì. Iniziavo ad aver paura che la mia parabola discendente fosse senza fine. In estate decisi che avrei accettato la prima squadra che mi avesse garantito la titolarità. Non mi importava né la categoria né l’ambizione di classifica. Avevo 24 anni e non avevo mai giocato più di 30 partite in una singola stagione. Volevo mettermi alla prova e capire una volta per tutte quale fosse il mio livello, quanto valessi realmente. Per farlo, avevo una sola possibilità: andare in una piazza che mi consentisse di giocare titolare per tutto l’anno. Mi chiamò l’Imolese e non ci pensai due volte. Era la soluzione perfetta: una società solida, ma umile, che non viveva alla giornata, ma che non puntava nemmeno alla promozione. In quella stagione giocai 41 partite, segnai 18 gol e mi rilanciai”.
L’anno dopo (il 2020/21), come hai anticipato ad inizio intervista, riesci a metterti in mostra nonostante i campionati vengano interrotti dalla pandemia. Realizzi infatti 6 gol nella prima metà di stagione e convinci il Novara a puntare su di te per il 2021/22. In Piemonte parti in sordina, ma poi metti a segno 11 gol nel solo girone di ritorno e arriva così la chiamata della Reggiana. Con i granata è stato amore a prima vista?
“Sì. Mi offrirono un ruolo da protagonista in una delle piazze più importanti della Lega Pro e in una delle squadre più forti del girone. Accettai subito e cominciò una storia bellissima che va avanti ancora adesso”.
Il tuo non è stato un percorso sempre facile. Ora però stiamo raccontando una promozione in Serie B da assoluto protagonista in un club storico come la Reggiana. Che messaggio ti senti di dare ad un giovane che magari sta incontrando le prime difficoltà in un settore giovanile?
“Che la differenza la fanno le motivazioni personali. Io ho vissuto diversi momenti difficili, estati tribolate e stagioni sconfortanti, ma non mi è mai sorto il dubbio che nel mio futuro potesse non esserci il calcio. Sono sempre stato convinto di poter fare come lavoro ciò che volevo fare: il calciatore. Quella era la mia passione, conoscevo le mie potenzialità e sapevo che prima o poi avrei avuto l’occasione di dimostrare quanto valgo. Questo credo sia un messaggio per tutti, non solo per chi vuole fare il giocatore professionista: scegliete la vostra strada e, qualsiasi cosa succeda, non fate in modo che qualcuno vi porti a dubitare delle vostre doti o a modificare i vostri desideri. E aggiungo un’altra cosa: abbiate il coraggio di farvi un esame di coscienza e di assumervi le vostre responsabilità quando i risultati non arrivano. Io ho cominciato la mia risalita quando ho cambiato il mio atteggiamento; ho smesso di crearmi degli alibi (anche quando magari potevo averne) e ho iniziato a convincermi che le mie motivazioni e la mia passione sarebbero state più forti di tutti gli ostacoli. Questa mentalità mi ha fatto maturare sia come persona che come calciatore e mi ha messo nelle condizioni di rendere al meglio”.
Abbiamo iniziato l’intervista parlando di obiettivi e ci hai detto che il tuo, quest’anno, è sempre stato la promozione. Un po’ per riscattare la delusione della scorsa stagione, un po’ per ripagare l’affetto che hanno sempre dimostrato nei tuoi confronti piazza e società. Ora che obiettivi hai?
“Beh prima di tutto ti dico che non vedo l’ora di tornare a giocare in Serie B. Soprattutto perché, essendo passati sette anni dall’ultima volta, posso affrontare questa avventura con più consapevolezza e maturità. Farlo con la maglia della Reggiana addosso, poi, mi rende ancora più impaziente e orgoglioso. A lungo termine non nego che il sogno della Serie A ce l’ho ancora. Magari non sarà da protagonista, ma spero di riuscire a toccarla. Se non cullassi questo desiderio, probabilmente avrei già smesso”.
E per il momento, Eric Lanini, ad appendere le scarpe al chiodo non ci pensa neanche. C’è una B da giocare e, prima ancora, una doppia cifra da raggiungere. Per chiudere la stagione in bellezza. Per non rovinare il trend. Per far esultare ancora una volta i tifosi granata.