Calvano si racconta a LGI: "In quel Milan sembravano di un altro pianeta"

Sono serviti 223 giorni. Tanto è durato il digiuno realizzativo di Simone Calvano con la maglia del Monopoli. Dal missile da lontano che trafisse il Foggia nella seconda giornata allo Zaccheria – una perla che regalò il momentaneo 2-1 nel 4-1 finale – il centrocampista ex Taranto ha dovuto aspettare l’ultima gara della regular season per tornare a esultare.
Il suo ritorno al gol è arrivato contro il Giugliano, con un colpo di testa su corner battuto da Bruschi che ha sbloccato la partita, poi vinta 3-2 dai biancoverdi. Un successo che ha consegnato con un turno d’anticipo il terzo posto nel girone alla formazione di Alberto Colombo.
Ma non è stata solo una rete importante: quella partita ha segnato anche il ritorno da titolare di Calvano, dopo oltre sei mesi difficili, segnati da un’operazione in artroscopia a novembre e da un recupero più lungo e complicato del previsto. Adesso il Monopoli è pronto per i playoff con un Calvano in più…
“Nessuno si sarebbe aspettato un posizionamento del genere in classifica. Siamo stati bravi a non mollare nei momenti di difficoltà. Abbiamo attraversato anche un periodo complicato, attorno alla trentesima giornata, in cui abbiamo ottenuto qualche risultato negativo. Però siamo riusciti a ricompattarci e a concludere il campionato al terzo posto, sicuramente oltre le aspettative. A livello personale, ho subito un infortunio abbastanza serio che mi ha tenuto fuori per diversi mesi. Però poi sono riuscito a rientrare: inizialmente ho giocato qualche spezzone, e poi sono tornato titolare, riuscendo anche a segnare. Sono felice di essere tornato, ma sono ancora più contento per la squadra, che ha chiuso terza e ora si giocherà i play-off".
Partiamo dall'inizio: com'è nata la tua passione per il calcio? Dove hai mosso i primi passi?
“Vengo da una famiglia che ha sempre seguito il calcio, anche se mio padre non ha mai giocato. Ho iniziato nella squadra del mio quartiere a Milano, la AICS Olmi. A sei anni ho partecipato a un torneo e lì mi ha notato un osservatore dell’Atalanta, che mi ha invitato a fare un provino. All'epoca però ero ancora troppo piccolo, così per un anno ho giocato nella Viscontini — oggi si chiama Parma Calcio Lombardia — sempre una società di Milano. Intanto l’Atalanta mi aveva già messo gli occhi addosso, e l’anno dopo, a sette anni, sono entrato nel loro settore giovanile a Zingonia. Lì ho fatto tutto il percorso, dieci anni in totale”.
Immagino che crescere a Zingonia ti abbia formato anche a livello umano. Fin da piccolo vieni instradato verso la vita del calciatore, anche se nei primi anni ti trattano comunque come un bambino…
“Sì, ho avuto la fortuna di crescere in un ambiente dove ti insegnano davvero le basi del calcio. Lì c’era gente come Mino Favini e allenatori molto preparati dal punto di vista tecnico. Non è un caso se da quel settore giovanile siano usciti così tanti giocatori importanti. Sul piano personale, relazionarmi con gli altri non è stato sempre facile. Essendo di Milano, tre volte a settimana prendevo il pulmino per andare a Bergamo, subito dopo la scuola. Avevo già cominciato a fare delle rinunce da piccolo, e questo mi ha formato molto. Lasci da parte amicizie, vita privata... ma capisci presto che quello sarà il tuo percorso”.
Poi arriva il Milan... Se non ho visto male, con la Primavera hai vinto anche la Coppa Italia.
“Esatto, negli Allievi Nazionali sono stato acquistato dal Milan. Ho fatto due anni in Primavera e poi un anno aggregato alla prima squadra. Era la stagione dello scudetto con Allegri, se non sbaglio il 2010/2011. Poi abbiamo vinto la Coppa Italia. In quegli anni la Primavera era molto competitiva, c’erano tanti ragazzi che poi hanno fatto carriera. Quella vittoria fu davvero importante. Ho trascorso un anno un po’ a cavallo tra Primavera e prima squadra. Ho avuto la fortuna di far parte della rosa che vinse lo scudetto, un’esperienza che ha segnato l’inizio della mia carriera professionistica”.
Entrare da giovane nello spogliatoio di una squadra come quel Milan, ricco di campioni, deve essere stato forte. Com’era allenarsi con, ad esempio, un certo gentleman come Ibrahimovic?
“Impari subito le regole, come ci si comporta in uno spogliatoio del genere. All’inizio ero veramente imbarazzato: tutti campioni, io un ragazzino. Il confronto umano con certi giocatori, che fino a pochi giorni prima vedevi solo in TV, è forte. Però col passare dei giorni iniziano a coinvolgerti, ti fanno sentire parte del gruppo. È stata un’esperienza formativa e bellissima. Io ero molto timido, parlavo poco, facevo il mio. Però ho imparato tanto”.
C’è qualche giocatore in particolare che ricordi con affetto, che ti ha lasciato qualcosa in più?
“Sì, mi ricordo in particolare Abate e Antonini. Erano quelli che mi stavano più vicino, forse anche perché erano più giovani rispetto ad altri e riuscivano a entrare più in sintonia con me. Poi c’era Seedorf, che pretendeva tantissimo da me, come anche Ibrahimovic: lui pretendeva molto da tutti, specialmente dai giovani. Ma i rapporti più diretti li ho avuti con Abate e Antonini. Con gli altri no, forse anche per la mia timidezza e perché, onestamente, sembravano di un altro pianeta”.
E poi è arrivato anche l’esordio…
“Sì, ho esordito in Coppa Italia contro la Lazio, subentrando a Robinho. È stata un’emozione enorme, un riconoscimento a tutto il percorso fatto fino a quel momento. Un momento che ricorderò sempre. Da lì è iniziata ufficialmente la mia carriera, con tutti i suoi alti e bassi”.
Tra Atalanta e Milan, parlando solo del tuo percorso nelle giovanili, c’è una figura che senti di dover ringraziare in modo particolare?
“All’Atalanta ci sono stati due allenatori fondamentali per me. A livello caratteriale, Eugenio Perico: un allenatore che ti forgia, ti aiuta a crescere come persona. E poi Marino Magrin, che è stato importante sia dal punto di vista umano che tecnico. Un altro è Polistina, che mi ha insegnato tantissimo sul piano tecnico. Facevamo ore e ore di esercizi di conduzione palla tra i cinesini, una scuola davvero formativa. Al Milan ho avuto meno tempo, ma in Primavera ho lavorato con Stroppa, anche lui molto bravo, e poi ha fatto una bella carriera da allenatore. Sono stati loro, più di tutti, le figure chiave di quel periodo.”
Finisce il capitolo della Primavera e inizia davvero la tua carriera da professionista. Ho notato che il Verona è un club ricorrente nel tuo percorso: è lì che fai l’esordio tra i grandi, giusto?
“Sì, esatto. Il primo anno ero al Verona in Serie B, ma non ho mai giocato. Da lì sono andato sempre in prestito, per fare esperienza in Serie C: San Marino, Albinoleffe, Reggiana... Dopo l’anno a Reggio Emilia sono tornato a Verona, in Serie A. All’inizio di quella stagione ero fuori rosa, ma da dicembre ho iniziato a piacere al mister Pecchia e così ho cominciato a giocare in Serie A. Ho fatto 15-16 presenze e da lì ho proseguito la mia carriera, anche con diversi anni in Serie B. Poi, purtroppo, sono arrivati anche parecchi infortuni”.
Com’è stato il passaggio dal calcio giovanile a quello professionistico? Qual è stato l’impatto più difficile nel salto dalla Primavera al Verona in Serie B?
“Mah, già a 18 anni ho avuto un brutto infortunio alla caviglia. Quando il Verona mi ha preso ero ancora infortunato e sono rientrato solo a ottobre. Da lì è sempre stata un po’ una rincorsa. Detto questo, il salto è enorme. La Primavera è un mondo a parte: cambiano le dinamiche, il modo di stare in gruppo, i rapporti con le persone. In Primavera, se giochi nel Milan magari pensi di essere già un grande giocatore… poi ti scontri con la realtà. Se non sei bravo a gestire questo impatto, rischi: c’è chi finisce in D o in Eccellenza, chi smette, o chi, come me, fa una carriera piena di alti e bassi. Ma è proprio un altro sport, sotto molti aspetti”.
Nel nostro almanacco sei finito già nelle prime due edizioni, e spesso sei stato paragonato ad Antonio Nocerino. Ti ci rivedi?
“All’inizio sì, mi rivedevo. Facevo la mezzala, un po’ come lui. Anche se lui era più brevilineo, io sono più longilineo. Col tempo, però, mi sono spostato più al centro, quasi da play. Poi ho sentito tanti accostamenti… ma fa sempre piacere, Nocerino ha avuto una grande carriera”.
C'è un paragone, tra tutti quelli fatti, che ti ha colpito di più?
“Senza dubbio Vidal. Arturo è sempre stato un mio idolo. Mi fa piacere essere accostato a lui, anche se ovviamente... non sono neanche la sua ombra! Però sì, è quello che mi ha fatto più piacere”.
E da piccolo? Avevi qualche idolo particolare?
“Sì, quando ero al Milan mi piaceva molto Boateng. Mi impressionò quell’anno lì… cercavo anche di farmi il pizzetto come lui! Quando sono salito in prima squadra, mi prendevano in giro per questo. Era fortissimo. E poi da piccolino, essendo interista, avevo come idoli tutti i giocatori dell’Inter, soprattutto Ronaldo il Fenomeno. Mio padre era interista, quindi in casa si respirava quell’aria lì”.
Come l'ha presa tuo padre quando sei finito al Milan?
“Benissimo, era solo felice per me. Al di là dei colori, ha sempre pensato al mio bene”.
Oggi, essendo un classe ’93, sei uno dei più esperti nello spogliatoio. C’è qualche giocatore che ammiri ancora, anche se non è un top player?
“Sai, dopo tanti anni di carriera è difficile dirne uno solo. Però ogni giorno puoi imparare da qualcuno, sia dai giovani che dai più esperti.
Nella mia squadra attuale, il Monopoli, ad esempio, c’è Miceli: a livello caratteriale è un punto di riferimento. Poi ci sono giovani come Samuele Vitale, il nostro portiere, che ha una mentalità incredibile per la sua età. Quindi sì, osservo, imparo, rubo con gli occhi, anche se non ho un nome preciso. È bello che si possa imparare sia da chi ha esperienza, sia da chi ha fame”.
Quest’anno sei stato fermo a lungo per un infortunio, ma sei rientrato con un gran gol. E ti abbiamo anche visto lanciare i cori sotto la curva… che momento è stato?
“Eh, quella è stata la mia prima partita dopo mesi. I compagni mi hanno passato il megafono e mi hanno detto: 'Vai, tocca a te!'. È stato emozionante, una piccola rivincita dopo tanta fatica. L’infortunio è stato duro: doveva essere una cosa più breve, poi si è allungata. Ma rientrare così, con il coro, il gol… è stata una soddisfazione personale enorme. Un riconoscimento per tutto quello che ho passato quest’anno”.
Adesso puntate ai playoff, giusto? Siete arrivati terzi, ma a inizio stagione non eravate tra i favoriti.
“Sì, fino a un certo punto eravamo anche primi. Poi abbiamo avuto un calo. Sappiamo di non essere la squadra più attrezzata sulla carta, ma ci crediamo.
A inizio anno dicevano che dovevamo salvarci, quindi essere qui è già tanto. I playoff sono una lotteria e spesso li vince chi ci arriva meglio fisicamente. Noi daremo tutto”.
Ultima domanda: hai già in mente cosa ti piacerebbe fare dopo il calcio?
“Bella domanda. Ho cominciato a pensarci dai 28 anni in su. Al momento ho un B&B a Milano e magari mi piacerebbe concentrarmi di più su quello.
Però sì, mi piacerebbe molto restare nel mondo del calcio. Fare l’allenatore, ad esempio, è un’idea che mi affascina. Certo, dipende dalle opportunità che la vita ti offre. Non ho mai lavorato fuori dal calcio, quindi non sarebbe facile reinventarmi da zero. Vorrei restare in questo ambiente, anche se non so ancora in che ruolo. E intanto continuo a far crescere i miei progetti extracampo. Poi magari tra un anno te ne racconto altri”.